lunedì, febbraio 27, 2006

Insegnanti probi e meritevoli

Apprendo oggi che col decreto legge 250, del 5 dicembre, è stato aggiunto un nuovo tassello a quel che scrivevo tempo fa, sugli insegnanti di religione (Cattolica, ovviamente) nella scuola italiana.

Tale decreto dichiara infatti che quegli insegnanti, se provenienti da anni di supplenze e precariato, nel momento dell'entrata in ruolo non perdono i punteggi acquisiti e il livello di stipendio.
E tutti gli altri? Quelli che insegnano italiano, storia, matematica? Loro no. All'iscrizione in ruolo ripartono da zero, anche dopo vent'anni di lavoro.

Alla faccia del Gesù Cristo, e del tale Francesco d'Assisi, che s'erano disfatti d'ogni bene personale -- o così ci dicono... gli insegnanti di... religione?

domenica, febbraio 26, 2006

Strumenti di seduzione

Cos'è che rende seducenti? Restringiamo la domanda al campo affettivo, sentimentale.
Alcuni giorni fa ho assistito ad una scena dal vivo, in cui due giovani si baciavano, nel tumulto di un luogo affollato. Il modo in cui le labbra di lei restavano in attesa di quelle di lui, mi è sembrato immagine di una seduzione che vedo raramente, ormai.
Wolf ha obbiettato che potesse essere perché avevo bevuto un paio di drink. Non gli ho neppure risposto, ma penso che abbia interpretato il mio silenzio.
Il punto è che non vedo più così spesso immagini d'amore (o d'innamoramento, come poteva essere in questo caso) forti, cariche di sentimento. Spesso quel che osservo, sono azioni meccaniche, difficilmente cariche del desiderio di risvegliare le passioni. Molto più tese a soddisfare solo se stessi.

Un aneddoto, una frase letta, raccontata, mi ha scatenato una riflessione sulle qualità atipiche nel risvegliare i sensi, nelle capacità di sedurre. Ad esempio con l'intelligenza.
Raccontandola a Wolf, mi ha risposto qualcosa di profondo, del tipo "Seduco sempre con la mia intelligenza: d'altronde, come potrei riuscirci con la mia stupidità?"
Troverei difficile contraddirlo.

In questo fine settimana mi sono trovato in parecchie situazioni bizzarre, eppure la riflessione sul modo di porsi, mostrando la propria intelligenza, ne ha condizionato spesso lo svolgersi.
Ho riflettuto soprattutto sulla seduzione basata principalmente sull'aspetto fisico, quella che possiamo mettere in atto (o esserne oggetto) senza che ci sia conoscenza fra due persone. Sicuramente è quella che storicamente abbiamo più usato, fin dai tempi in cui non eravamo dotati di comunicazione verbale.
Adesso la nostra comunicazione non è solo verbale, è passata attraverso quella epistolare, per approdare a mezzi sempre più indiretti -- in una comunicazione tramite computer non c'è neppure la nostra calligrafia, l'incertezza del tratto, a comunicare emozione.
In fondo non dovrebbe esserci un compromesso? Qualcosa d'intermedio, che permetta di dire chi siamo, senza porre distanze, barriere?
E nell'essere noi stessi, siamo seducenti?

Non è finita: la riflessione era assai incompleta, un po' come fermarsi al mosto prima di vedere il vino. Magari la ripropongo quando sarà fermentata.
In compenso ho bevuto del buon vino, mentre ci pensavo.

domenica, febbraio 19, 2006

Attentato alla salute

La percezione dei pericoli negli alimenti è veramente bizzarra.
La Food and Drug Administration americana ha imposto le denuncia dei possibili allergeni, possibilmente presenti nei cibi pronti, così anche McDonald's ha dovuto ammettere la presenza di glutine e derivati del latte nelle proprie patatine.
Una vergogna per la compagnia, che aveva cercato di coprire la faccenda, sicuramente.
Allo stesso tempo un indice di quanto siano ingenui i consumatori. Oppure quanto sappiano vendere per ingenuità l'avidità di denaro, ricercato nelle cause giudiziarie che si scatenano.

Ricordo una puntata della trasmissione televisiva Report, dove avevano avuto piena impossibilità a sapere come siano ottenuti i grassi vegetali idrogenati e perché, chiedondolo ai produttori.
Insomma si può sapere che sono fra gl'ingredienti, ma non si si può sapere come vengano prodotti, non si può sapere quanto sono veramente dannosi (e in buona parte lo sono già, leggendo l'articolo di Report).

Insomma, ci scateniamo perché le patatine di McDonald's sono addizionate di farina e latte (alimenti dannosissimi, si sa), ma nessuno obbliga i produttori di grassi alimentari a fare chiarezza su quello che è il riempitivo, la componente più importante di tanti alimenti.

Vorrei ricordare fra l'altro che per legge, nell'elenco degli ingredienti, questi sono in ordine di quantità: leggere più spesso le confezioni è suggeribile.
Anche se non risolutivo, visto che spesso non vengono ben specificati -- come i vaghi "oli vegetali" e "grassi vegetali".
Però in qualche caso è educativo scoprire che certi prodotti, pubblicizzati come "buoni con leggerezza", non abbiano in verità nessuna dote di leggerezza, con percentuali di grassi spesso ben aldilà di quello che possiamo smaltire.

Consideriamo infatti un dato medio, come quello del massimo di grassi saturi smaltibili quotidianamente a 4 grammi.
Ora leggete la confusa etichetta di un qualsiasi prodotto. Già è difficile trovare i grassi suddivisi in saturi e insaturi, il che rende la cosa ardua. Se non sono specificati, si suppone siano del tipo peggiore, di cui non fa merito la menzione, per cui al 50% saturi.
Cioè di un prodotto con il 24% di grassi, ad esempio, bastano 30 grammi per superare la quantità di grassi saturi che smaltiamo in un giorno. Due-tre biscotti, di prodotto industriale, sono solitamente già aldilà del limite.
Persino il pane bianco, ha spesso additivi grassi, per donare un particolare sapore o consistenza, immagino.

Sinceramente, mi pare che la patatina di McDonald's sia meno rilevante di un sassolino che colpisce la luna.
La cosa più rilevante è che nel dare spazio alla protesta contro le multinazionali più in vista, si finisca per non avere più energie per chiedere chiarezza dove ce n'è veramente bisogno: perlomeno per noi non-americani.

venerdì, febbraio 17, 2006

Sondaggi d'opinione

Sono solitamente avverso ai sondaggi d'opinione, in qualunque forma vengano.
Non al leggerne i risultati, che m'incuriosiscono sempre, ma nel partecipare.
Chiedere a mille persone la loro opinione su qualcosa è sicuramente rilevante per sapere cosa ne pensano, singolarmente, quelle mille persone. La statistica poi è altro.
Magari si riesce a prendere un campione abbastanza significativo, ma in fondo non c'è garanzia di farlo bene.

Quello in cui riescono bene, i sondaggi, è dare dei risultati che abbiano influenza sugli altri.
Così vale la pena di comunicare i risultati di tutti quelli che favoriscono l'immagine del proponente. Ad esempio, un'azienda produttrice di yogurt, televisori, scarpe, o qualsiasi altro bene di consumo, sarà felice di farci sapere che una notevole percentuale degli intervistati ha scelto il loro prodotto. Se così non fosse stato, possono rifare il sondaggio, o semplicemente ignorare il risultato.
La pubblicità dei primi in classifica è il fatto di essere i primi in classifica.

Un paio di giorni fa ascoltavo per radio il signor Vittorio Zucconi, giornalista da Washington, che raccontava di un interessante metodo di spin doctoring impiegato da un'azienda di sondaggi americana, durante una campagna elettorale del politico più alto in carica negli Stati Uniti d'America.
In gara con un altro concorrente, per una campagna regionale (non ricordo in quale stato e con chi), la sua azienda di statistiche chiamava al telefono per un sondaggio i cittadini americani.
Le domande erano sull'opinione che avevano del concorrente. Nell'apparenza tutto normale. Solo che le domande erano del tenore di "Lei voterebbe per il signor X anche se fosse rivelato che è gay e pedofilo?", "Lei voterebbe per il signor X anche se fosse coinvolto in un grave scandalo economico?"
L'obbiettivo era dunque di insinuare dubbi, di seminare diffidenza. E a quanto pare riuscì benissimo, visto che poi il signore in questione vinse quelle elezioni.

La finalità statistica dei sondaggi è praticamente in declino, non servono più a molto, se non hanno anche un effetto secondario.
Un buon motivo per non parteciparvi.
Un buon motivo per cui quando vengo interpellato telefonicamente non rilascio opinioni, e alla domanda "se non usa la nostra, allora quale altra compagnia telefonica sta usando?" rispondo "un'altra compagnia telefonica".

Comportamenti criminali

Credo che l'istigazione al crimine sia un reato ovunque, e non sorprende che lo sia.
Fra l'altro, ha una facile presa, in un mondo dove la comunicazione è sempre più importante. Cento anni fa era più difficile che il racconto di un'impresa criminale varcasse i confini di stato. O che anche raccogliesse emuli, desiderosi di entrare nel mondo con qualche tipo d'impresa.

Il thriller classico ha spesso temi come gli omicidi seriali, e l'emulazione di questi da parte di altri soggetti psicologicamente instabili.
Non è poi difficile vedere applicazioni pratiche di questi comportamenti aberranti, siano essi di piccola o grande entità.
E' ben difficile cercare d'ingabbiare l'informazione dopo tutto, oltre che illiberale, nei paesi moderni, progressisti. Non si può insomma evitare di raccontare che qualcuno ha ucciso il vicino di casa, per la paura che tutti vogliano fare lo stesso, oppure omettere di parlare dei sassi lanciati dai cavalcavia autostradali, per impedire che qualcuno voglia emularlo.
L'unica arma efficace è l'educazione, la cura della persone. Non esclusivamente una cura in senso clinico, ma anche un curarsi di chi soffre di disagi di qualsiasi genere, inclusi quelli economici e sociali.
Qualcuno mi considererà fin troppo tollerante, pensando che la repressione sia sempre la vera cura. In realtà quel modello sta continuando a fallire fin dall'inizio dei tempi storici. Le pene sono solitamente adeguate al modello culturale e al momento storico, eppure non bastano mai come deterrente, neppure nei paesi che includono la pena capitale. E' evidente che vada percorsa anche un'altra strada, parallela e più avanzata, rispetto a quella della repressione.

Come detto però, non tutti la pensano così.
Voglio citare un esempio alquanto bizzarro, che mi ha scatenato la scrittura di questo articolo (nonostante le mie lunghe premesse).

In Australia, la colonia inglese fra Oceano Indiano e Pacifico, vigono tuttora delle leggi che viste dall'Europa non potremmo che definire ottocentesche, se non semplicemente anacronistiche.
In fatto di libertà individuali, di evoluzione sociale, sembrano infatti ancora legati alla figura del monarca-tutore, che indica al popolo-fanciullo la strada verso la vita, l'educazione insomma di un'intera nazione ribelle e immatura.
Un esempio banale è la classificazione della censura sui videogames.
Se da un lato si leggono articoli che ci parlano di buon rispetto dei diritti umani, dall'altra parte si legge anche che è una delle nazioni con il più forte livello di censura. Le due affermazioni mi appaiono stridenti, se messe a fianco: la censura non lede forse dei diritti?
Tanto è forte la censura, che i videogiochi sono consentiti solo hanno una classificazione massima MA15+ (da 15 anni in poi), mentre tutto quello che sarebbe classificabile R18+ (fruibile solo da chi ha superato i 18 anni) è di fatto censurato.
Quindi è possibile che un film violento, o pornografico, possa essere visionato da chi è maggiorenne, mentre gli è precluso in assoluto un videogioco.
Per quale motivo? Il pericolo dell'istigazione a comportamenti criminali. Così un videogame in cui il protagonista diventa un ladro di auto, o un assassino, diviene una esperienza proibita ai sudditi britannici down under (a testa in giù, nell'emisfero là di sotto).
La notizia che leggevo oggi era anche di un altro videogioco, di cui è stata dichiarato lo stato di pericolosità, in quanto i protagonisti sono dei graffitari, che scarabocchiano i muri cittadini -- e vietando il videogioco, immagino che gli australiani non sapranno mai di cosa si tratta, se sono ingenui come i propri governanti.

Che dire, è bello non vivere in Australia. Perlomeno non in quella del diciannovesimo secolo, contemporanea al nostro 2006.

giovedì, febbraio 16, 2006

Simboli di morte

C'è un che di tetro nella simbologia di molte religioni, forse per il legame che hanno col mondo delle tenebre eterne, dell'aldilà.
Certo, il simbolo chiave del cristianesimo, un uomo morente su una croce, non ha niente di comparabile con la positività del buddismo, dove nella simbologia di base c'è un uomo seduto e sorridente.
Già questo dovrebbe far riflettere un bel po', il fatto che la più diffusa religione europea, di matrice medio orientale, abbia come simbolo centrale non solo la morte, ma la morte per tortura. Di per sé non c'è niente di male nella morte per vie naturali, diciamo non forzate dalla mano umana. Assurgere a simbolo quel tipo di morte, pare invece una deviazione, se si dovesse commentare con il moderno strumento della psicanalisi.
Spesso partiamo da concezioni che abbiamo appreso per tradizione culturale, punti di vista che mettiamo in discussione con maggior difficoltà. Quasi come se metterli in discussione sconfessasse la buona fede e il prestigio dei nostri antenati.

Se qualcuno vi dicesse che oggi, nell'anno 2006 del nostro calendario, qualcuno scegliesse come simbolo un mutilato di guerra, nel momento in cui viene mutilato, cosa ne pensereste?
Supponiamo che ve lo proponga come simbolo di vita: penso che avreste qualche dubbio.
Così come se per simbolo d'amore venisse scelta una donna che viene stuprata, non penso che incontrerebbe molti favori.
Va però notato che in ogni epoca, in ogni cultura, ci sono sensibilità diverse. La simbologia cristiana di un paio di migliaia d'anni fa, era probabilmente in linea con i suoi tempi.
Sfortuna vuole che le basi religiose siano solitamente inamovibili, per cui mentre un'azienda può aggiornare il suo marchio, coll'avanzare dei tempi, una religione deve mantenerli rigidi. Pena la perdita di credibilità (o credulonità, se mi si perdona il termine puramente inventato).

Quello che si dovrebbe trovare sorprendente è il rapporto fra Chiesa e Stato, in certe nazioni che diciamo occidentali.
Se da un lato si è delineata la necessità pratica di svincolare i governi dalla religione, dall'altro era quasi impossibile operare questa separazione chirurgica.
I governi che sono andati più in questa direzione, forse sono stati quelli di matrice marxista, che hanno cercato di sostituire il populismo della religione con quello della politica. Vedendo infine ogni religione come attentato al potere del popolo, quando in realtà questo potere era pura utopia. Ironicamente hanno cercato di togliere il credo religioso, sostituendolo con il niente, un cambiamento inaccettabile per la spiritualità umana.
All'opposto si sono schierati i paesi di derivazione anglosassone, come il Regno di Gran Bretagna e Irlanda, dove la reggente è automaticamente anche il capo della Chiesa Anglicana.
Probabilmente sorte analoga è toccata agli Stati Uniti d'America. Ricordo infatti che nei più recenti sondaggi, prima delle elezioni presidenziali, gli americani non avrebbero mai accettato un presidente che non credesse in Dio. Un loro modo d'investire con delle elezioni, il capo del governo insieme al rappresentante di Dio in patria.
Non cito neppure i tanti paesi dove la separazione fra Chiesa e Stato non è mai stata neppure paventata, tanto sembrava assurda, per le loro popolazioni.

Ora, circa un centinaio d'anni dopo lo Statuto Albertino, che metteva nel primo articolo la religione Cattolica, come suo fondamento, siamo invece giunti ad una Costituzione di tipo laico, dove il primo riferimento alla religione è all'articolo 3. E col tentativo di garantirla indipendente dallo Stato.
Nei fatti siam rimasti un po' come gli statunitensi, non c'è stata una dissoluzione dei legami fra Stato e Chiesa. E' un po' come un bambino che pure imparando a camminare da solo continua a cercare la mano del genitore, per il conforto di non essere da solo. Allo stesso modo abbiamo creato una nazione infantile, che vuole correre indipendente in avanti, ma tranquilla di poter correre anche indietro, di tanto in tanto.

Un caso eclatante, che dovrebbe far salire l'indignazione (o almeno la sorpresa) di chiunque creda nella separazione di Stato e Chiesa, è quello del crocifisso nelle aule scolastiche.
Una sentenza del Consiglio di Stato (quello Italiano, non Vaticano, come si potrebbe supporre) ha infatti espresso che tale simbolo debba rimanere nelle aule scolastiche, in quanto "è un simbolo idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori civili" (sic).
Queste sole parole dovrebbero scatenare domande inquietanti.
Perlomeno dovrebbe esserci qualcuno, che vista l'esposizione di un uomo torturato come fondamento dei diritti civili, spieghi ai giovani alunni il perché sia obbligatorio mettere proprio quell'uomo nelle aule e non un altro. Potrebbe funzionare al suo fianco la foto di una donna lapidata?

Leggendo più avanti la sentenza c'è veramente di che rabbrividire:
"un simbolo idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori civili che sono poi i valori che delineano la laicità nell'attuale ordinamento dello Stato".
Il concetto di laicità espresso mi pare in diretta antitesi con quello che dice ogni dizionario della lingua italiana.
La laicità, secondo il Consiglio di Stato, sarebbe l'apposizione obbligatoria di un simbolo religioso?

E' naturale dubitare delle capacità del Consiglio di Stato verso le sue funzioni, visto che non riesce neppure ad esprimersi in lingua italiana!
Ma c'è dell'altro, di molto più inquietante: e se chi ha scritto, firmato e pubblicato un atto del genere, fosse davvero a conoscenza di quel che ha scritto?
Se non fosse (come fa pensare) di un'ignoranza così imbarazzante?
Se avesse davvero saputo che stava prendendo in giro la religione Cattolica (affermando che non si tratta di un simbolo religioso) e ogni italiano (affermando che si tratta di laicità), come mai ha dichiarato una tale assurdità?

Ma in fondo che importa. A televisore spento niente importa, in questa nazione.

P.S.: Anche l'associazione dei consumatori ADUC si dissocia dalla decisione del Consiglio di Stato, come apprendo da una loro nota.

mercoledì, febbraio 15, 2006

Posso parlare col titolare?

Le compagnie telefoniche sono alla continua ricerca di nuovi contratti, probabilmente in un rincorrere i clienti che passano dall'una all'altra -- non so quanto spazio ci sia ancora per contratti totalmente nuovi.
Così la domanda "posso parlare col titolare?" è quella che ricevo più frequentemente, da interlocutrici sconosciute (solitamente donne), dirette incaricate di qualche gestore di telefonia o di aziende che ne rivendono i servizi.

Ora, io ho una qualità (sicuramente discutibile), che consiste nel saper essere cordiale ma distaccato e risoluto, per cui prevengo il protrarsi della spiegazione della telefonata.
In primis perché non uso così tanto il telefono, non sono alla ricerca di nuove opzioni che mi facciano risparmiare il centesimo al minuto.
Mentre esercito questa mia capacità comunicativa, sono di solito attento e curioso del modo in cui si pone chi sta dall'altra parte del telefono.
C'è chi probabilmente è già esperta, per cui non insiste, risponde al mio saluto e finisce la telefonata.
Un caso divertente, quanto assurdo, venne da una venditrice telefonica che non mi permetteva d'interromperla nella sua esposizione (no, non era un messaggio registrato), fingeva direttamente di non sentire. Dopo due o tre tentativi, salutai e riagganciai che ancora stava parlando, ignorandomi. Richiamò pure: probabilmente era risentita per non aver terminato. Non risposi neanche.

La chiamata che ho ricevuto stamani invece rientrava in un'altra categoria, in quella dei giovani venditori lanciati allo sbaraglio.
Ne ho sinceramente pena, perché ho l'impressione che abbiano accettato un lavoro che li coglie impreparati, senza aver avuto aiuto formativo. Di fronte al potenziale cliente difficile (diciamo come me) sono spesso sbigottiti, con le risposte negative troppo decise.
Posso solo chiedere scusa alle giovani operatrici di call center che mi chiamano: non ce l'ho con voi, sono semplicemente stufo di essere preso per un consumatore da sfruttare.

In qualche modo, chi le lancia all'attacco, mi ricorda quelli che mandano i figli di pochi anni d'età a mendicare, a lavare vetri ai semafori, a vendere rose nei ristoranti.
Vorrei parlare io, col loro titolare. Probabilmente non sarei altrettanto cortese.

Non disturbare il conducente

Probabilmente è un fattore d'età, un effetto della miopia, ma forse anche solo un fattore di maturità, che negli anni mi ha portato a cercare di essere un miglior guidatore d'automobile.
Il senso di miglioramento lo misuro con una maggiore attenzione agli altri, non solo nel concedere le giuste precedenze, ma soprattutto nel concedere con spensieratezza anche quelle ingiuste.

Sembra invece, quando giriamo per qualsiasi città o paese, che ci sia sempre una gran quantità di guidatori (e guidatrici) di ogni veicolo motorizzato, con delle urgenze che richiedano anche il rischio della vita. La loro e quella di chi hanno intorno, ovviamente.
Immagino che a tutti capiti una giornata storta, in cui il tempo non basta mai, e quello impiegato in automobile diventa prigionìa.
Ma sono davvero così tante, le persone che non possono fare a meno della fretta?

L'altro aspetto è quello dell'educazione civica. Se da un lato è vero che prendersi la giusta precedenza è un diritto, è anche vero, come accennavo prima, che qualche volta non serve forzare la mano.
Non sono delle novità quegli incroci, confluenze, in cui la segnaletica è stata pensata e messa in atto da un branco di scimmie -- in certi casi preferisco vederla così, è più dignitoso che pensarli umani: almeno sai che non potevano capirne di traffico di veicoli.
E allora che fai? T'impadronisci del diritto di precedenza? Qualche volta diventa un caos indicibile, mentre ti basta rallentare per un attimo dai 50 km/h ai 20 km/h, e se guardi nello specchietto vedi che hai risolto un ingorgo che magari si sarebbe protratto per cinque minuti.
I cinque minuti che sommati fanno le ore, i giorni, e tutto quanto segue.

Eppure l'automobilista, il guidatore di motocicli o scooter, è ansioso.
Ha speso soldi per un mezzo che potrebbe arrivare ai 200 km/h e deve passare le giornate in un ingorgo cittadino, consumando più carburante che per andare a quei 200 km/h. Inoltre ha intorno a sé una moltitudine di altri suoi simili, tutti con la stessa ansia: quella di arrivare prima.
Pare quasi ci sia un'empatia allora, il malessere si propaga e si amplifica. Deduce che anche quelli intorno a lui hanno fretta, ma a) non sanno guidare, b) rubano tempo e spazio a lui/lei, che sa guidare!

Ci sono poi quelli che non hanno fretta, che non ne hanno mai avuta. Perché tranquilli del loro viaggiare, oppure terrorizzati dal condurre un mezzo meccanico che avanza rumorosamente.
I loro 40 km/h sono equi, in una visione tutta loro, personale. Mantengono la velocità infatti costantemente, città o autostrada, su asfalto o sullo sterrato, su un rettilineo senza incroci, come in caso di semaforo rosso o di segnale di stop.
Li riconosci anche quando non guidano, perché se parlano di automobili, la loro prima memoria è di non avere mai avuto un incidente da tanti anni, grazie alla loro guida prudente. Non hanno mai visto nello specchietto retrovisore chi si è ammazzato per scansarli.

Così, non disturbate i conducenti. Già hanno ogni nevrosi contemporanea rinchiusa fra delle lamiere (o dentro un casco), non fategli carico di saperlo.

martedì, febbraio 14, 2006

San Valentino

Ascoltavo ieri alla radio un'intervista al signor Piero Angela, sul suo recente libro Ti amerò per sempre. La scienza dell'amore.
Ovvio che non fosse casuale l'evento, ma studiato per arrivare giusto prima della ricorrenza del 14 febbraio (oggi).
Come scrivevo tempo fa, non trovo blasfema la ricerca scientifica sui sentimenti, piuttosto la vedo talvolta inutile. Certo, magari il libro di Angela si focalizza sui fenomeni fisiologici (non l'ho letto, per cui non saprei), dove è relativamente semplice capire quali stimoli producono quali effetti.
Non so poi come affronti le tematiche sociali e psicologiche, che sicuramente sono molto complesse e meno facilmente indagabili.
Il punto che rimane sicuramente più difficile da capire è la soggettività, il modo in cui in una persona tutti i singoli aspetti si combinano (fisici, chimici, psicologici e sociali) per ottenere il suo senso dell'amore.

Quello che scatena, una ricerca del genere, è poi esattamente ciò che immaginavo, leggendo alcuni commenti di lettori (o presunti tali), su un sito di libri on-line.
Toccare un argomento che copre molte delle nostre sfere di percezione e d'azione, fa altalenare i commenti fra gli entusiasti e gli inorriditi.
Certo, avessi letto il libro, magari anch'io mi schiererei su un fronte d'opinione. Va da sé che per quanto io sia di pensiero spesso netto, deciso, non amo molto le prese di posizione estremistiche.

Ogni pensiero, sentimento, relazione, che ci coinvolge in modo emotivo, diventa facilmente un territorio di battaglia. L'emozionalità rende facilmente giustizia al nostro essere tutti diversi, e nel senso buono.
La diversità però è un peso da portare, qualcosa da sostenere. Assai più facile è conformarsi a qualcosa di esistente, ci rafforza il fatto che non si è da soli.
In ogni relazione dove le diversità si mettono a confronto, si nota facilmente un conflitto, talvolta esasperato, nel tentativo di far valere la propria visione, emozione, percezione.

In certe festività, ricorrenze, prese come assodate da lungo tempo, si vede spesso chi cerca di distaccarsene. Un esempio classico è il Natale, che col suo significato canonizzato, anche nei consumi, spazia ampiamente dagli accaniti sostenitori, agli indispettiti dal formalismo.
Fenomeno analogo capita a questo San Valentino, che non è legato ad una festività religiosa (a parte la casualità del nome di un santo?), ma che porta in tavola l'amore, come piatto unico.
Così c'è chi senza il regalo, ormai simbolo abusato, non lo sente vero, non sente di essere amato o amata. E c'è anche chi ha l'avversione del regalo, oppure il morso della solitudine o dell'amore tradito, per cui propone odio verso la ricorrenza.

E insomma, perché non accettare di più?
Dico, prendete il regalo con più attenzione al pensiero di chi l'ha dato, passando sopra al fatto che avvenga in una ricorrenza così consumistica.
E prendete l'amore per quel che è: il fatto che ci siano degli ormoni in circolo, che ce lo fan sentire, non lo sminuisce di valore, non lo meccanicizza, come si è soliti pensare di ogni cosa che passa per lo studio scientifico.
E arrabbiatevi per i regali fatti "per il senso del dovere", infastiditevi di chi vi vuole spiegare come ci si sente da innamorati.
Non ho scritto delle contraddizioni, è la vita ad essere continua contraddizione, niente segue un percorso ripetibile: di volta in volta abbiamo la possibilità di scegliere, cambiare opinione, emozionarci. E vedere tanti aspetti diversi.
La rigidità di pensiero, la celebrazione di quello meccanico o etereo, è l'unica cosa da non festeggiare.

lunedì, febbraio 13, 2006

The Hitchiker's Guide to The Galaxy

Ho comprato qualche giorno fa il film in DVD, uscito nel 2005, basato sul libro di Douglas Adams (e pare anche approvato nella sceneggiatura dallo stesso Adams, deceduto nel 2001), e devo dire che l'ho trovato veramente esilarante, perfettamente intonato allo stile del libro.
Anche i dialoghi cercano di riprendere alla lettera quelli del libro -- che ovviamente rimane enormemente più vasto, e divertente.
Però è stato molto simpatico, vedere trasposti in personaggi del cinema, gli assurdi protagonisti della Guida galattica per autostoppisti.

Segnalo fra l'altro che si trova in PDF ad un indirizzo che mi sono annotato: se avete la pazienza di leggerlo da un monitor o sul display di un computer portatile.

Nota: una casualità impressionante (ma non lo sarebbe stata per lo stesso Adams) è che oggi, 13 febbraio 2006, mentre sfogliavo Wikipedia, dopo aver già scritto questo articoletto, trovo che Douglas Adams è l'articolo del giorno sulla pagina in Inglese.

Dove si trova la libertà?

Leggendo una breve nota di Ashtart, sul suo weblog, ho avuto lo spunto per questa domanda.
La libertà ha davvero bisogno di un luogo in cui tutto si azzera, si cancella, per essere vissuta senza distrazioni, senza oppressione?

Mi ha richiamato alla mente la storia de Il deserto dei Tartari di Buzzati, non solo per la narrazione del romanzo, ma per la motivazione prima che spinse Buzzati a scriverlo. All'epoca era infatti impiegato in una grande azienda, dal clima opprimente, con un lavoro anonimo. Traspose così quello stato d'animo di vuoto interiore, mentre tutto intorno ti spersonalizza, con nessuno che ti conceda la tua unicità e importanza.
Molti anni fa ho vissuto le sensazioni di Buzzati, sia quelle del clima aziendale mastodontico, burocratico, che quelle che lui raccontava in metafora, di un un luogo militarizzato e chiuso al mondo esterno, dove solo l'angoscia riempie le giornate.

Ci sono luoghi dove la mente cerca continuamente la libertà, la fuga. E non solo la mente.
Ma dove si trova, infine la libertà? C'è un luogo preciso?
La domanda in sé mi ripropone un breve racconto Zen, che citerò qui a memoria.

Un discepolo del Buddha si era seduto in meditazione in una foresta, cercando la tranquillità. Dopo un po' che era seduto si accorse però che lo svolazzare e il cinguettare degli uccelli non riusciva a fargli trovare la concentrazione. Allora se ne andò sulla riva del fiume, ma anche lì non c'era il silenzio che cercava: l'acqua che scrosciava, i pesci che saltavano, erano un continuo disturbo.
Allora cacciò tutti gli uccelli e pescò i pesci, li cucinò e se li mangiò, facendone indigestione e finendo malato.
La vera confusione non è nello scrosciare dell'acqua o nel canto degli uccelli, ma nel nostro spirito.


Trovo che la riflessione del racconto sia molto interessante.
La ricerca di qualcosa, di una parte di sé finita perduta, è sicuramente più facile in un luogo dove niente ci distolga da noi stessi. Dove si riesce a concentrarsi sul proprio essere, è più facile trovare quel che si è perduto.
Il punto è che comunque non c'è garanzia che l'essere soli con se stessi porti a capirsi, a migliorarsi. Per estensione, visto che siamo comunque una specie con tendenza sociale, è anche più probabile che ci si forzi ad un vivere estremo.
Magari la socialità di cui abbiamo bisogno ci è sufficiente in un gruppo di cento individui della nostra specie, anziché in un ammasso urbano di centinaia di migliaia: l'eccesso di contatti interpersonali ci spersonalizza. Ci rende piccoli nella moltitudine.
La misura di tutto quello è sicuramente soggettiva.

Pare che ogni tanto diventino simboli particolari le scelte di vita diverse, come chi si allontana dal mondo, un po' come in Guerra agli umani di Wu Ming 2.
Eppure, qualunque sia il motivo e il modo in cui cambia un modo di vivere, sia per chi si estrania in assoluto per una ricerca di ascesi, sia per chi vuole cambiare città, nazione, o continente, c'è sempre qualcosa in agguato.
Chi attraversa l'oceano cambia il proprio cielo, ma non anima, così cita Loreena McKennitt in un suo bellissimo album, fatto di viaggi per il mondo.
In ogni fuga vedo l'espressione di una necessità, la ricerca di un bisogno. Il suo raggiungimento è però scollegato da quanta strada si percorre, sia essa misurata in miglia, chilometri o con un salto culturale e nello stile di vivere.
Sempre McKennitt cita Lao Tzu, "un buon viaggiatore non ha percorsi prefissati e nessun intento di arrivare".
Chi invece vuole arrivare da qualche parte, fosse questo luogo la dimora della libertà, dovrebbe porsi un obbiettivo, una destinazione.

Se poi trova il suo obbiettivo senza finire a centinaia o migliaia di chilometri da dov'è partito, forse allora ha ottenuto qualcosa anche più grandioso.
Avere come punto d'arrivo quello di partenza può anche essere la distanza più lunga percorribile fra due punti, se per arrivarci si transita per ogni altro punto dell'universo. Incidentalmente è anche la più breve, ma qui sta tutto nella capacità di muoversi, anziché attendere i Tartari.

Senza moderazione

Ho tolto la moderazione ai commenti su questo blog: finora non ne arrivava neppure uno, adesso che son liberi per tutti vedremo che accadrà.

giovedì, febbraio 09, 2006

Disturbi di sottofondo

Si annunciano tafferugli, scene di piccola sovversione, violenze (com'è già accaduto), concomitanti all'evento olimpico di Torino, che invero non sto seguendo per niente -- non so neppure se è cominciato o quando comincerà, vedo da un calendario che ci sono gare per l'11 febbraio, suppongo inizierà per allora.
Così come non ho seguito le proteste contro la TAV, la linea ferroviaria ad alta velocità. Immagino ci sia di che preoccuparsi, nei lavori di alta velocità ferroviaria, visto lo scempio ambientale che hanno portato altrove -- come falde acquifere inquinate dai lavori, o milioni di metri cubi d'acqua deviati verso altre profondità, rendendone impossibile il recupero (in un mondo dove è sempre più un bene prezioso).

Questi eventi appoggiano la mia ipotesi di qualche tempo fa, ripresa anche in un mio recente articolo, qui. L'ipotesi che si crei un disagio sempre maggiore, che non penso porti ad un clima di guerra civile, ma sicuramente non allenta le tensioni sociali già in atto.
E' evidente che nel caos si mescolano poi tante forze, quelle della protesta pacifica, quelle della protesta violenta, quelle della sovversione autorizzata. Perché è anche possibile che mantenere il livello della paura, il livello di attenzione, faccia il gioco di chi controlla realmente il potere -- e non venitemi a dire che essendo in democrazia è controllato da noi stessi.
I no-global tumultuosi sono una garanzia, la sicurezza dell'insicurezza: un potenziale destabilizzante della società sopita, lo spauracchio che rende giustificabile l'uso della forza, che una volta messa in moto diventa comoda anche per altri scopi -- qualsiasi protesta sociale diventa un pericoloso sfogo dei no-global.
E se non fossero abbastanza violenti, distruttivi, basta inserirci qualche elemento adeguato -- se c'è una cosa facile da scatenare è il caos.

Un sottofondo disturbato è sempre utile. Non completamente caotico, ma disturbato.
Così come si modifica la legge sulla difesa personale, meglio dare un po' di far-west ai cittadini, che investire nella repressione del crimine -- aumentando l'effettività dei mezzi di polizia, contro i crimini che ci sono ben noti.
Meglio fingere che esistano dei poliziotti di quartiere (ne avete mai visto uno?), che affrontare seriamente la criminalità consolidata.
Meglio avere dei piccoli criminali, agitando lo spauracchio del terrorismo, che intervenire per migliorare il livello sociale.

E che si facciano infine queste Olimpiadi, come pura immagine.
Il signor Enrico Mentana (non so come, ma sembra che sia anche un giornalista), che ho sentito stamani parlare in radio, ha detto che le proteste in concomitanza delle Olimpiadi renderanno una brutta immagine dell'Italia, per cui che si evitino e si rimandino a dopo l'evento.
Una brutta immagine? Sorprende pensare che si possa ancora fare qualcosa per peggiorare l'immagine del paese, ma se lo dice lui, avrà ben in mente qualcosa.
E che si racconti pure che per la prima volta tutto quanto è stato organizzato in anticipo, tutto finito: così sentivo dire qualche giorno orsono, in qualche altra radio. L'articoletto letto oggi invece mi dice qualcosa di leggermente diverso.
E che scenda in corteo anche la signora Laura Bush, non so bene in rappresentanza di cosa. Forse del suo paese, ma anche su questo sarebbe interessante sapere se rappresenta almeno la metà del suo paese.

Ma che non ci siano le azioni a "bassa intensità" descritte dal signor Pisanu (che incidentalmente ricopre anche la carica di Ministro degli Interni).
In questo spettacolo dell'ovvio, dove di tutto si parla fuorché di sport, sarebbero un potenziale e sgradevole disturbo di sottofondo.

mercoledì, febbraio 08, 2006

Mondo reale

Vista una precedente citazione, in cui avevo trovato un riferimento al signor Antonio di Pietro, ho curiosato sul suo sito, leggendo qua e là.
Devo dire che letto il primo punto del suo programma elettorale, beh, sono rimasto divertito al pensiero di cosa significhino davvero le cose che elenca e come vengano viste dal resto d'Italia.

Sono le cose che s'insegnano a scuola, in un corso d'economia e diritto basilare.
Quelle che gli studenti imparano perché "così le vuole ripetute l'insegnante". Quando escono per strada, sanno che tutto va diversamente.
Nel primo punto del signor di Pietro avrebbe dovuto esserci un'altra premessa, quella di convincere gl'italiani verso l'onestà. Ma sarebbe impossibile anche per un tiranno illuminato, operare una tale conversione, figurarsi per uno stato che approssima il concetto di democrazia.

"Chi viola la legge deve pagare."
Una frase troppo forte per essere appoggiata da molti, vista la mentalità comune dei piccoli espedienti. E non parli di furti e rapine, basti pensare a chi compra un DVD copiato, oppure è vissuto per anni col decoder della TV satellitare illegalmente.
Senza l'educazione alla legalità, non vedo possibile la strada verso la legalità.

Educare poi, con la pletora di cattivi esempi che ha ogni ragazzino, diventa sempre più impegnativo.
Il lavoro più importante, più impegnativo e carico di responsabilità che vedo, è da sempre quello di chi insegna: si danno oggi le basi per il domani.
Non basterà scegliere la legalità in modo elettorale, dovrà poggiare su delle basi, altrimenti sarà un palazzo costruito sulla sabbia. E le basi del domani sono i bambini di oggi.
Io lo vedo così, un pezzo importante del mondo reale.

Stabilità

Cambiando canale alla radio, mentre si viaggia nel traffico cittadino, si catturano nelle interviste radiofoniche delle perle improvvise (e improvvide).
Stamani ho ascoltato per pochi secondi un idiota (chiedo venia dell'espressione: non ho ascoltato a sufficienza da poter apporre il nome e cognome, al termine idiota), intervistato su una radio nazionale, che ha definito una buona legge elettorale quella che fa durare a lungo un governo.
Come dire che governi come quello di Pinochet o di Pol Pot avevano buone leggi elettorali.

E se per dare una parvenza di stabilità, si facesse qualcosa per lavare via un po' di fango dal pantano della politica?
Non parlo di grandi cose, ne basterebbero di piccole. Beh, piccole: sarebbero piccole in una nazione civile, qui le cose sono diverse. Basta vedere i politici citati da Beppe Grillo. E sempre dal suo sito, l'articolo sull'imbarazzante denuncia di chi fa una dichiarazione onesta.

Visto poi che è facile correre a conclusioni affrettate, sottolineo sempre che non condivido tutto quel che dice o scrive il signor Grillo. In qualche caso mi pare infatti esaltazione sopra le righe.
La verità rimane spesso trasversale alle ideologie. Penso al caso del giornalista Marco Travaglio, politicamente schierato a destra, che per esprimere le sue ricerche sui fatti economici sporchi della destra deve farlo sulla stampa di sinistra -- e immagino che invece sarebbe di nuovo accolto volentieri dalla destra, per citare gli affari sporchi della sinistra.
Rimane difficile controbattere il fatto che ci siano non solo politici corrotti, come vuole il vecchio adagio, ma politici condannati in via definitiva, che siedono allegramente in parlamento.

Tempo fa lo stesso signor Grillo aveva addirittura comprato la pagina di un quotidiano europeo per denunciare la faccenda dei parlamentari criminali.
Europeo, in lingua inglese: per fare sapere all'Europa cosa succede in Italia. Perché agli italiani si sa, non importa. Per loro conta la stabilità.

lunedì, febbraio 06, 2006

Consumatori del genere giusto

Penso che sia nota a molti l'esistenza del lievito di birra in compresse. Ricco di vitamine, salutare per il tratto intestinale, probabilmente un buon alleato sia contro i virus stagionali che per tanti altri motivi.
Tempo fa, cercandone di una marca specifica, non riuscivo - a colpo d'occhio - a vederlo sullo scaffale del supermercato. Detti quindi una seconda occhiata più attenta, finché non trovai una bottiglietta della forma e dimensioni che conoscevo, ma con una diversa grafica.
Capita: cambiano confezione, non la vedi subito. Leggo meglio. Il titolo più in risalto (oltre alla marca) dice "Vitalità e bellezza", subito sopra "nutrizione e donna", in fondo, in piccolo (per vergogna?), finalmente la scritta "lievito di birra".
Posso consumarne anche se non sono una donna e il mio obbiettivo non è "vitalità e bellezza"?

Le ricerche di mercato individuano quali sono le tipologie di consumatori di ogni prodotto, per stimolarle a crescere -- nei consumi.
Come appare agli altri, ai consumatori marginali, essere esclusi dall'iconografia pubblicitaria?

La ricerca dell'appetibilità ha generato ulteriori divari fra uomo e donna, su prodotti che magari non hanno alcuno scopo di essere separati.
Certo, in campo cosmetico è facile, suddividendo con delle profumazioni selezionate quello che è maschile dal femminile. Anche se magari il prodotto è alla fine lo stesso, aroma a parte.
Ma non basta. I prodotti ci suddividono anche in consumatori ricchi e consumatori poveri. Che spesso avviene con lo stesso metodo, profumando in modo più costoso quel che deve essere consumato dal più danaroso -- penso ad esempio alle scarpe di una nota marca internazionale di abbigliamento sportivo, che smista negli stessi magazzini i prodotti buoni da quelli economici, solo che li fa produrre nella stessa fabbrica, ma cambia solo il cartellino di vendita.

Questa divisione dei consumi, quale impatto ha sulla società?

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Che peccato, avevo scritto un'altra paginata di testo e per una banalità è andato perso da questo servizio di blog. Non ho la pazienza e il tempo di riscriverlo.

venerdì, febbraio 03, 2006

Che accada da noi? Impossibile

Dopo ogni tragedia, che scuote un'intera nazione estera, siamo sempre pronti a dirci migliori.
Per poi smentirci sempre in modo patetico.
Mi viene da pensare ai black-out elettrici, come quello nello stato di New York anni fa. In Italia, si affrettarono a dire, mai succederebbe. Invece ne successe anche uno peggiore, con la nazione intera bloccata per due giorni.

Così trovo irritante e petulante il signor Bertolaso, dalla Protezione Civile, che ad ogni scempio deve sempre ricordare che "qui siamo migliori".
L'ultima in vista della ricorrenza dei quarant'anni dall'alluvione di Firenze del 1966, che si commemorerà a novembre. Adesso non succederebbe, ci dice quel signore, si è lavorato per migliorarsi. Anzi, citando un'opera fiorentina rovinata dall'alluvione, ha pure aggiunto "Se si riuscisse a completare il restauro per il 4 novembre sarebbe un'ottima testimonianza di quanto questo Paese è in grado di proteggere i propri beni culturali".
Ora, camminando per le strade di Firenze non è esattamente quel che viene da pensare: evidentemente sono poco attento, per non vedere tutta questa protezione. O troppo attento a quel che cade nell'incuria.
Mi chiedo se certe frasi siano studiate a tavolino. Se ci sia premeditazione nel costruirsi un'immagine di beota, o se sia un obbligo istituzionale.

Milioni di posti di lavoro

In una delle passate campagne elettorali si promettava, fra le tante cose, un milione di posti di lavoro.
Visto lo stato del paese poteva apparire ad alcuni come demagogia, ad altri come una grande speranza, di essere in quel milione di nuovi lavoratori.

Stamani alla radio, ho sentito nuovamente la promessa di allora, dallo stesso personaggio politico.
E come prima cosa non mi ha ricordato né la demagogia, né le speranze degli italiani, ma un'analisi che qualcuno aveva fatto, con numeri molto semplici, alla precedente tornata.
Che la matematica ci sia difficile è inevitabile, in fondo il cervello umano non ha le basi per il pensiero matematico, per quanto sia bravo a simularle (e in qualche individuo eccezionalmente bravo). Ma questa matematica era assai semplice, trattandosi di aritmetica.

Il milione di posti di lavoro era anzitutto da vedersi nel corso di una legislatura, per cui con una suddivisione che statisticamente non è equa, ma rende l'idea, proviamo a dividere un milione per i 5 anni di una legislatura. Otteniamo duecentomila.
Ora, al tempo della precedente promessa, nell'anno subito precedente, i posti di lavoro creatisi erano stati ben oltre duecentomila: quindi la promessa, nelle cifre, era già inferiore ai precedenti.
Ma non essendo tutti matematici, e anche scarsi in aritmetica, l'effetto era sortito.

Va da sè che la creazione di nuovi posti di lavoro non implica il mantenimento dei precedenti.
Creare quindi duecentomila posti di lavoro e perderne alcune decine di migliaia, rallenta in ogni caso la crescita del lavoro. Risalgo ad esempio a dei dati ISTAT del 2003, in cui solo nella grande azienda si sono persi 24mila posti di lavoro.

C'è poi la tipologia del lavoro ad essere inquietante, come citavo in un mio precedente articolo. Diventando sempre più precario, legato a contratti temporanei, è evidente che non crea stabilità: per assurdo, nel giro di altri cinque anni si potrebbero avere molti più posti di lavoro, ma con molti meno occupati sicuri di ricevere un salario ogni mese.

In conclusione, quanti posti di lavoro si dovrebbero creare, per garantire stabilità e crescita al paese? Milioni probabilmente, nel giro del quinquennio.
Credo che a questo punto nessuno si sentirebbe di prometterlo, primo perché suonerebbe falso, troppo falso. Secondo, perché è ben difficile da promettersi, anche in buona fede (o in assoluta ingenuità, che non cambia il risultato).

mercoledì, febbraio 01, 2006

Grandezza e limiti del pensiero

Riflettendo sulla mia scarsa tolleranza verso tante cose, sono giunto a qualche risultato a cui non avevo mai pensato prima, in proposito alla psicoanalisi e alla psicoterapia.
Devo anzitutto confessare che il mio interesse per entrambe mi ha fatto pensare più volte se prendere quel corso di studi, per cui rientro fra coloro che in qualche modo hanno una velleità di analista.

Il punto saliente della mia riflessione è sul fatto che il terapeuta, di fronte al paziente, non può rivelare ogni sua intuizione.
Questo è ovvio per tanti motivi. Se qualcuno raccontasse un'angoscia verso la torta di mele, oppure l'incapacità di mangiare un'insalata, magari il professionista che ascolta ha compreso che è una situazione in cui agire indirettamente: non può dire al paziente che i timori sono tutti stupidaggini. Deve prendere qualche strada più lunga e tortuosa, affinché il paziente possa affrontare il problema in modo graduale.
Potrebbe anche condurlo fino alla soluzione, senza mai rivelare la sua intuizione -- che magari, per me e voi che leggete, era banalmente "da bambino ti han costretto a mangiare solo torta di mele e insalata e ti ha scioccato!": solo che la banalità non esiste, per chi ne ha ansia.

Quanto si può accettare senza una spiegazione?
Perché se anche una spiegazione ci fosse, per chi è abituato ad approfondire - come me - appare evidente quand'è fittizia o incompleta.
Direi che io non possa accettare proprio niente, se mi viene negata una spiegazione completa o comunque veritiera. Fortuna che non ho problemi con le torte di mele o le insalate.

Quanto si accetta delle manipolazioni?
Un amico mi raccontava di alcune scene da lui viste, che a me risultano classiche. La moglie che apostrofa con veemenza il marito, in pubblico, perché doveva mettere le scarpe di quel colore e non di questo, e anche quell'altro maglione e non questo, con l'uomo che annuisce silenziosamente.
Eppure non tutte le manipolazioni sono con lo scopo di prevaricare, così come non tutte sono sintomo d'impotenza da parte di chi viene manipolato. Ci sono infatti situazioni in cui si crea un rapporto fra dominatore e sottomesso, in modo cosciente e accettato da entrambi.
Senza giungere a casi estremi, è evidente che anche nel rapporto fra terapeuta e paziente si deve accettare un ruolo di questo genere, visto che altrimenti può diventare difficile l'accettare i consigli di chi li propone.
E qui mi felicito di nuovo di non avere problemi con le torte di mele, visto che sono spesso piuttosto restìo nell'accettare i consigli altrui, ma anche estremamente intollerante verso i tentativi di condizionamento.

Quanto si pensa?
Solitamente in modo sproporzionato: come se l'attività cerebrale fosse sempre ad un ritmo diverso dalle nostre necessità fisiche quotidiane.
Si prendono alla leggera le situazioni che necessitano riflessione. Si prendono come estremamente serie quelle da vivere spensieratamente. Certo, detto così non lascia scampo: è certamente vero che esiste tutto un mondo in cui le azzecchiamo.
Coordinare mente e azione però rimane sempre una gara, come lo dimostra qualsiasi gioco di riflessi.