sabato, ottobre 22, 2016

Buona socialità

Nel libro "Del buon uso della religione", Alain de Botton presenta una visione tanto affascinante quanto irreale, utopistica. Si chiede infatti, dato che nello spirito delle religioni c'è sempre un intento altruistico, di buona socialità, come questo si possa traslare in una società laica, finanche atea.
Letto il libro qualche tempo fa, mi ero già fatto un'opinione personale in proposito. Quest'oggi, ripensando ad altre questioni, mi si è ripresentata memoria delle argomentazioni di de Botton, e di alcune sue errate considerazioni.

Il principio di fondo che inganna de Botton sembra essere la buona socialità come oggetto delle religioni, o anche come entità fondante. In realtà i principi fondamentali delle religioni riguardano il culto della (o delle) divinità, ed a questo scopo coinvolgono il maggior numero possibile di adepti. Mantenere uniti questi adepti, creare il gruppo sociale, che si rafforzi numericamente, e quindi abbia un peso importante, è successivamente un processo sociale. La buona socialità è quindi di per sé un mezzo, non il fine. Nel nostro essere animali sociali si è poi data una spiegazione aggiuntiva, per cui la buona socialità è parte stessa del principio che l'ha prodotta: questo è probabilmente l'inganno in cui anche de Botton è caduto.

Con questo, diventa difficile prendere come unico fine la sola buona socialità, e forgiare tutto intorno ad essa. Ne sono testimoni le ideologie politiche comunitarie dello scorso secolo, che hanno preso derive del tutto diverse, e sono decisamente naufragate: non si può forzare chiunque ad essere semplicemente altruista. Serve un argomento di fondo più forte, normalmente prevaricante (il giudizio divino, l'imponente condanna metafisica, la sua applicazione forzosa).
La nostra socialità, da sola, non riesce a mantenere uniti gruppi eterogenei per lungo tempo. Amiamo vivere in modo sociale, ma affinché funzioni ci serve uno scopo superiore.
C'è poi da notare come le religioni abbiano unito sotto uno stesso scopo anche chi non ama la socialità, quali gli eremiti. Difficile proporre un modello alternativo che raggruppi anche i misantropi, o gli asociali di vario tipo.

L'unica società riunita, anche quando ci sono evidenti divisioni, sembra essere quella dell'utopico futuro nella fantasia di Star Trek. Non che io la trovi impossibile, ma dati i trascorsi fallimenti, e le continue divisioni sociali, mi pare altamente improbabile.

lunedì, agosto 22, 2016

Invisibili divisioni

Qualche volta si conosce un argomento un po' più della media, magari perché si è professionisti del settore (e questo è il caso che mi capita più di frequente), oppure semplicemente perché si conoscono più dettagli di altri che ne parlano.
Altra cosa ancora è essere attenti lettori o ascoltatori, tali da capire quando un discorso rivela inesattezze, nasconde informazioni, oppure è completamente errato. In questo caso non aggiungiamo conoscienza personale all'argomento specifico, ma ne creiamo a partire dalle capacità analitiche.

Un breve articolo che ho letto oggi su un quotidiano, cita nuove regolamentazioni in Italia per il glifosato, un erbicida (o quello che più propriamente si dovrebbe dire un agrofarmaco) in uso da lungo tempo.
L'articolo recita che "su questo prodotto il mondo scientifico si era diviso".
La formula delle "divisioni" è una classica argomentazione da stampa generalista, che è solita non portare fatti concreti a sostegno, ma ha lo scopo di acquisire l'interesse dei lettori con il tema retorico della presunta incertezza che regna nel mondo scientifico.
La complessità della scienza, riportata al livello di conoscienza medio, viene banalizzata dicendo che "neppure gli scienziati ne capiscono granché". Ovviamente non è vero, ma la riduzione del pensiero scientifico, del progresso della conoscenza, ad un'ignoranza diffusa, rende tutto meno pauroso per le persone semplici.

La prima volta che ho veramente riflettuto su questo fenomeno è stato una decina d'anni fa, vedendo il documentario "Una scomoda verità", sui cambiamenti climatici. Nel racconto di Al Gore, si rifletteva sul fatto che la stampa generalista ci parlava di scienziati divisi sull'argomento, quasi incerti nel sapere se tutto fosse davvero causato dall'influenza umana sul clima. Al contempo nelle pubblicazioni scientifiche, nessuno metteva in dubbio che la causa degli sconvolgimenti climatici, nell'ultimo secolo, sia sicuramente il modo in cui usiamo le risorse del pianeta.
Quindi la stampa generalista proponeva una tesi senza fondamenti, ma probabilmente più accettata dall'uomo comune.

In fondo il giornalismo non è solo cronaca, ma ci ha abituati alla speculazione, proponendola come fattualità.
Siamo abituati a leggere fatti di cronaca in cui insieme alla notizia ci viene data la spiegazione, al furto ci viene subito proposto chi era il ladro, prima ancora delle indagini. Abbiamo uno sfrenato bisogno di risposte immediate, tanto più è grave e pressante il caso: non riusciamo a concepire l'omicidio irrisolto, serve velocemente una soluzione che non ci lasci nell'incertezza.
Il metodo viene esteso infine ad ogni argomento giornalistico, dallo sport alla scienza e tecnologia.

E il glifosato?
Leggo ancora nell'articolo citato all'inizio, che lo IARC l'ha dichiarato "probabilmente cancerogeno". In questa frase risalta la parola "cancerogeno" su tutto, per cui l'articolo confida che il lettore si perda altri dettagli. Si dice poi come l'EFSA abbia invece dichiarato che è un prodotto "sicuro" per la salute; ora l'esperienza ci insegna che se qualcuno solleva una parola come "cancerogeno" (anche se preceduta da "probabilmente") ormai è dichiarata la sua nocività, e nessuno potrà mai più trasformarlo in "innocuo".
C'è poi un'aggravante, quella del prodotto chimico, che rende irrecuperabile il salvataggio del glifosato. Perché se si fosse trattato di un prodotto naturale, si sarebbero mobilitate le milizie del mondo naturale, biologico, un po' com'è accaduto quando esattamente le stesse dichiarazioni sono state sollevate da IARC sulla carne rossa.

Fate un esperimento: se dichiarate di essere probabilmente ricchi, e qualcuno mostra le vostre tasche vuote dicendo che sicuramente non è così, per molti diventa facile credere al secondo. Quando invece le cose si complicano, come per una dimostrazione scientifica, restano in pochi a voler ascoltare una spiegazione complessa.

Nel prezioso libro "Contro natura" di Bressanini e Mautino, si ricorda come una grande quantità di persone sia incapace anche solo di ascoltare spiegazioni complesse, figurarsi l'analizzare i contenuti.
In quel caso la divisione semplice degli sciocchi è fra cibo naturale e cibo innaturale, senza considerare che la cosa è molto più complessa, tanto che non esistono né cibi naturali né cibi contro natura, come spiegato dagli autori. Ironicamente, per la smania di semplificare, sono citati un po' di paradossi in cui certi alimenti vengono tutt'oggi prodotti e raccomandati dalla filiera del biologico e naturale, mentre sono nati da esperienze molto più imbarazzanti degli inutilmente odiati OGM.

lunedì, aprile 18, 2016

Energica poliarchia

La comunicazione tramite l'internet ha rafforzato e rinsaldato alcune relazioni umane, che soffrivano delle lunghe distanze o della difficoltà nel trovare chi condivide alcune delle proprie passioni. Psicosi incluse, certamente.
Parimenti, la diffusione della conoscenza in ogni ambito si è ampliata. Così come allo stesso modo il dilagare dell'ignoranza ha trovato uno spazio virtualmente infinito, in cui allargarsi.
Direi semplicemente che la comunicazione sempre più facile è divenuta l'amplificatore di qualsiasi interazione umana, in positivo e in negativo.
Se mi soffermo qui a discutere i lati oscuri, è solitamente sia per il fastidio che mi arrecano, sia perché trovo interessante analizzare il comportamento umano. Pensate a qualsiasi comportamento o idea priva di fondamento, di logica, di buonsenso, e improvvisamente qualche social network fa eco ad un gruppo di migliaia e più persone che ne rivendica una certezza di vita.

I numeri, la matematica, per quanto esatti, non fanno mai dubitare chi ha delle certezze. Questo è il primo cardine della limitatezza umana.
Nel referendum popolare che si è chiuso ieri, relativamente alla cancellazione di concessioni di estrazioni di idrocarburi, ho letto una di queste curiose perle di ignoranza popolare. Aldilà infatti di motivi e risultati, anche chi non ha vinto alcunché ha dichiarato vittoria, perché vantava un vantaggio relativo molto alto. Giochiamo per un attimo con i numeri, per capire cosa significano.
Vincere un referendum, considerando la soglia minima di votanti affinché questo sia accettato, può essere veramente una piccola cosa. Se si necessita del 50% + 1 dei voti, su un 50% + 1 dei votanti, con una buona approssimazione si può dire che basta avere in favore il 25% dei votanti, in caso di bassa affluenza, oppure serve fino al 50% in caso di alta affluenza.
In pratica, ad un minor numero di votanti può anche essere più favorevole vincere, dato che la maggior parte dei votanti sarà già propensa ad appoggiare il quesito, e quindi motivata alla consultazione.
Nell'esempio della giornata di ieri, si è ad esempio espresso un 85,2% di pareri positivi, che dato un 31,2% di votanti, risultano in un 26,5% degli aventi diritto al voto. E' altamente probabile che un aumento dei votanti avrebbe potuto portare altri significativi risultati ai contrari al quesito, se si considera che i favorevoli sono stati mobilitati da gruppi con alto livello di comunicazione.
Qualunque speculazione se ne voglia trarre, un dato oggettivo è che il quorum non è stato raggiunto, il referendum è fallito. Quindi è insensato gridare vittoria, quando questa non c'è.

La breve memoria storica poi porta (molti) a dimenticare anche altri esempi passati. Nello scorso 2011, furono proposti dei quesiti referendari diversi, che probabilmente per una più ampia base di interessati, raggiunsero la sufficienza per il quorum, con circa un 54% degli aventi diritto.
Le tematiche sollevate, genericamente sul diritto ad una proprietà pubblica dell'acqua, giunsero a percentuali favorevoli fin oltre il 95%, risultando quindi oltre il 51% degli aventi diritto. In questo caso la vittoria era palese, qualsiasi voto in più non avrebbe cambiato questo risultato.
Nei giorni successivi al referendum però avvennero una serie di eventi politici volti ad annullare il risultato referendario, uno di questi dell'allora governo in carica, poi annullato dalla Corte Costituzionale, ma anche a livello regionale furono messi in atto una serie di interventi in questo senso. Ad esempio l'attuale Presidente del Consiglio, all'epoca presidente dall'azienda territoriale Toscana, riorganizzò la struttura in modo che il referendum non fosse applicabile, e tutto rimanesse sotto controllo privato.


La dimostrazione principale resta quindi quella che i referendum trovano applicazione solo dove gli interessi economici e politici non creano sufficiente contrasto.
Torno sempre a ripeterlo, ma in fondo la democrazia è solo una moderna forma di poliarchia, dove si è convinta la popolazione di poter sempre decidere del futuro.

Davvero i promotori del referendum recente credevano che chiudere gli impianti di estrazione di petrolio e metano avrebbe cambiato lo scenario energetico?
Perché da un lato c'era chi sosteneva la chiusura per la scarsa importanza sul piano strategico (una quota ridotta d'energia derivante), dall'altro chi prometteva un cambiamento fondamentale verso le rinnovabili (incomprensibile, se la quota non era strategica). Dal mio modesto punto di vista, qualunque fosse la condizione, nessuno avrebbe garantito che non avremmo usato gli stessi idrocarburi, però importandoli da altre nazioni, con altri costi.
Davvero c'è chi crede che per cambiare la gestione energetica si debbano fare scelte talebane chiudendo i rubinetti del gas? Tutti dovremmo convertire la caldaia a gas per acqua calda e riscaldamento? E tramite quale altra fontedovremmo scaldarci? Certo non con la legna, come crede qualche ingenuo (che dimentica come questo materiale naturale produca più inquinanti del metano).