lunedì, novembre 27, 2006

Timori inconsci

Quello che non conosciamo può diventare paura e angoscia, quando cresce in una portata superiore alla nostra emozionalità. Le dimensioni di questi fenomeni non sono però una misura diretta degli effetti.
Nel caso delle recenti violenze, filmate da giovanissimi con dei telefoni cellulari, e pubblicate come video in Internet, il fenomeno si è avuto su più livelli. Il livello del singolo caso di violenza ha provocato indignazione, a seguire la quale è sicuramente scattata una caccia al prossimo caso. E questo tipo di cacce non partono partono per eradicare una distorsione sociale, ma come solito per puro intrattenimento giornalistico, come notizia del momento.
La violenza quotidiana ormai rischia di creare assuefazione, così si cerca un singolo caso da esaltare, per riempirne pagine di giornali e bocche di politici.
Siamo fatti così, un fatto vero non ci sembra tale finché non viene raccontato, in modo esasperato, da qualcuno addetto all'informazione.

E sull'onda di questi fenomeni si creano situazioni paradossali, fino al ridicolo.
Il fatto all'origine era relativo ad un preoccupante fenomeno di violenza giovanile, filmato in una scuola. I responsabili sono stati individuati e mi augurerei si procedesse verso una condanna esemplare.
Eppure so che non sarà così, ma per spiegarlo è necessario partire da qualcosa che (apparentemente) non c'entra niente.
Si dice che i responsabili di Google Italia, l'azienda proprietaria del servizio tramite il quale era stato immesso in rete il video, verranno addirittura incriminati. Questo nonostante che il video fosse stato rimosso non appena divenuto di dominio pubblico.
Addirittura si sono scomodati dei politici in cerca di visibilità, come il signor Giuseppe Fioroni e la signora Maria Burani Procaccini, che hanno tuonato sull'arrivo di nuove encicliche. La seconda ha addirittura parlato di vuoto normativo.
Non sono riusciti a trattenersi, dovevano dir qualcosa, a sostegno della massa più ignorante e consistente della popolazione, che vede la sola parola "Internet" come immagine demoniaca. Una massa di persone che non leggerà sicuramente il documento di ALCEI, dove con poche parole si ricordano piccoli e importanti fatti.
Il primo fatto è che le norme esistono, partono da una direttiva europea e sono riassunte in un decreto legislativo italiano. Solo che quelle norme non obbligano i fornitori di servizi Internet al controllo dei contenuti, per l'evidente impossibilità della cosa -- evidente per chi ha idea di quante informazioni transitino in Internet quotidianamente, ma forse non tanto per i signori suddetti.
Il secondo fatto è che questi minori, fonte e vittime di violenze, sono spesso abbandonati completamente a se stessi dai genitori, che per altre norme, assai più antiche, dovrebbero farsi carico di crescerli ed educarli.

Come mai non ci sarà un epilogo che sia di monito ed educazione?
Perché riconoscere la piena colpevolezza di questi giovani porterebbe anche altro, come la dimostrazione che i genitori hanno clamorosamente fallito. E allora rispunterà l'onnipresente pietismo, ci racconteranno che "non si rendevano conto" dei loro atti, e visto che siamo in periodo natalizio sarà ancora più facile perdonarli. Sicuramente molto più facile che educarli al rispetto.
E in fondo è molto più facile accendere il rogo di Internet, che spegnere i falò della dignità, visto che sono stati appiccati dai comportamenti socialmente accettati. Essere poco più che adolescenti, possedere un telefono cellulare evoluto, non è solo socialmente accettato, ma richiesto. Il prodotto ultimo della violenza, della prepotenza, finisce per essere la somma di tutte le richieste opprimenti che il gruppo fa ai giovani. Devono essere alla moda, devono avere dei simboli che li dichiarino inseriti nel tessuto sociale. L'arroganza è scambiata per intraprendenza, la schizofrenia per vivacità, l'intelligenza e la capacità di riflessione per noiosità.
Quello che mi è spesso difficile capire è il confine comunemente accettato, fra le deviazioni comportamentali considerate la normalità delle persone, e quelle che sconvolgono l'opinione pubblica. Anche perché probabilmente il confine è solo illusorio.

venerdì, novembre 24, 2006

Grandi rivelazioni

Una citazione in breve, fra virgolette, di Punto Informatico, riporta quest'oggi la frase seguente
Blog?
"è il reality show dei miserabili. Milioni di persone mettono in linea la loro piatta vita che non interessa a nessuno. Siamo passati dall'esibizionismo in TV a quello su Internet"
(Pascal Lardellier, sociologo, docente dell'Università di Digione)
C'è da dire che in effetti ha un lato piuttosto sensato, seppure io non sia un lettore di weblog altrui.
Così come c'è da obbiettare che la critica mossa, fortemente impietosa, tenda ad essere sterile. Non considera infatti il motivo che spinge a compilare questi weblog. Eppure viene da pensare che qualcuno che si cataloga come sociologo, debba anche interrogarsi sul perché dei comportamenti sociali. Chiarifica tutto però l'appellativo successivo, di docente universitario: rende chiaro come possa essere caduto nel facile tranello di alcuni insegnanti, spesso di livello molto elevato, che non necessitano più di altre spiegazioni dal vivere, in quanto suppongono esclusivamente di darne loro.

Seppure io sia sostanzialmente d'accordo con la critica, verso la comunicazione vuota, sono quindi del tutto contrario alle motivazioni e modalità con cui viene mossa.
Se qualcuno necessita di scrivere o parlare di sé, per quanto sia una persona insulsa e noiosa, è evidente che sente un bisogno altrimenti inappagato. Questa comunicazione è quindi liberatoria, persino se non viene letta da altri. In questo differisce molto dai reality show citati dal signor Lardellier, perché in quel caso il soggetto non cerca liberazione nella comunicazione, ma sicura notorietà garantita dal tipo di spettacolo.
Probabilmente alcuni redattori di weblog cercano anche un modo di rendersi noti al mondo, cercano di stupire o di rendersi interessanti, ma rimangono comunque legati ad un successo incerto. Tutto questo è decisamente all'opposto del programma televisivo in cui si è protagonisti.
Se il signor Lardellier sapesse tutto questo allora non sarebbe un sociologo, ma piuttosto un fine psicologo, che s'interroga sul mondo, anziché interpretare questa sorta di voyeurismo frustrato.

Quello che il signor Lardellier ha raggiunto è però notevole. E' riuscito infatti a parlare di due fenomeni sociali già molto diffusi (una forma di comunicazione in Internet e i reality show), metterli in relazione fra loro con un concetto scontato, e infine ad apporre il suo nome come sigillo.
In breve ha raggiunto la notorietà che gli avrebbero negato in un reality show, è apparso in Internet come tanti altri che non hanno un'opinione di valore, e si è ritagliato il suo merito all'inutilità accademica. Complimenti.
Com'è che dicono i francesi, idiot savant?

giovedì, novembre 23, 2006

Marmaglie

Si sentono sempre più citati, nell'ultimo periodo, gli atti di prepotenza e di violenza nelle scuole.
Il primo complice della denuncia è il telefono cellulare, l'oggetto tecnologico passato da strumento di comunicazione a simbolo di stato, per finire come strumento di puro uso compulsivo.
Sottolineato il fatto che sono sempre stato contrario alla morale perbenista, resta comunque un fastidio nel vedere che il senso di rispetto degli altri è sempre più sottile. Mentre ci dotiamo di leggi per la riservatezza (che subito viene nominata come privacy, tanto per sottolineare l'incapacità di esprimersi), mentre si rinforzano i bastioni dell'impero dei diritti di copia (altrimenti detti copyright), cresce imperterrita la rivolta.
La rete Internet ha dato un impulso alla comunicazione, ma non solo in modo positivo. Sono state trasposte qui le necessità di libera comunicazione, che altrove non trovavano un mezzo. E' evidente che non siano tutte necessità lecite, non tutte sono solo espressione di diritto personale, ma alcune forzano il desiderio di oppressione degli altri.

Parlando qualche giorno fa con Loli, facevo una riflessione che ho trovato molto importante, sulle cosiddette nuove generazioni.
In ogni momento storico ci sono nuove generazioni, e in qualche modo si trovano sempre a vedere le cose diversamente, rispetto alle vecchie generazioni. Questo è accaduto inevitabilmente anche a me, molti anni fa. Ciò che faccio, continuando a pensare e a scrivere, è poi l'espressione di un desiderio: quello di non smettere di avere nuove visioni, di cercare sempre un angolazione diversa da cui vedere il mondo.
La riflessione era in poche parole il fatto, incontrovertibile, che le nuove generazioni sono un prodotto delle vecchie. E non parlo solo di prodotto biologico, come la discendenza, ma di ogni possibile implicazione. Ne faccio un esempio.
Le generazioni nate negli anni '40 del secolo scorso sono state condizionate dai precedenti di guerra, di povertà, di autorità, da tutta una serie di condizioni storiche e sociali; nel momento in cui hanno avuto figli, diciamo negli anni '60, cos'è successo?
L'Italia del boom economico era ben diversa, si sono creati modi di vivere diversi, c'è stato un rilassamento dalle posizioni austere, sono cresciuti diversamente. E la generazione del ventennio successivo, diciamo dagli anni '80?
I giovani che oggi hanno superato la pubertà, con tutti i loro atti di prepotenza, di disinteresse degli altri (ma anche di sé), non sono in fondo atterrati con un disco volante: sono l'esatto prodotto di chi li ha fatti nascere e crescere, lo specchio dei timori, delle insicurezze, delle incapacità, dei loro genitori. I quali, da genitori, hanno in qualche modo tentato di fare tutto per i figli (nel caso delle ansie protettive) oppure di lasciarli liberi (nel caso di ansie da oppressione genitoriale). Quello che non hanno fatto, che non hanno saputo fare, è di trattarli come figli.
Ieri sera ho sentito per l'appunto uno scorcio di un dialogo in televisione, in cui qualcuno esperto di psicopatologie come l'anoressia ha espresso, molto saggiamente, un concetto semplice ed efficace: "i genitori di oggi cercano di vivere con i figli come se fossero amici, mentre invece dovrebbero semplicemente trattarli come figli."

Da cosa deriva questo deficit?
Trovo molto probabile che sia uno strascico del progenitore nato negli anni '40, che ha cercato di perpetuare un mondo che ormai non esisteva più, con un figlio negli anni '60 che ormai s'imponeva. Insomma, la tradizione educativa sta progressivamente degenerando, e non perché sia corretta quella tutta autoritaria, ma neppure perché sia giusta quella completamente liberale: nel rapporto genitori-figli deve sempre esserci un bilanciamento delle due cose.
In un'intervista, un addestratore di cani, citava come fosse difficile, se non impossibile, educare un cane, per chi non è riuscito a educare i propri figli.

Viviamo ormai di un estremismo sempre più marcato. I figli sono facilmente malmenati oppure lasciati totalmente allo sbando, con poche vie di mezzo.
I mezzi di comunicazione ci aiutano poi a vedere il mondo in questi estremi: a che serve parlare delle famiglie che vivono bene senza essere ricche, che hanno figli educati senza il bastone, che hanno una dignità?
La notizia è nelle violenze familiari, in quelle scolastiche, nella cronaca nera. Il buon vivere non fa notizia.

Fuori i telefoni cellulari dalle scuole? Sì, sicuramente. Non serve un esperto a dimostrare la capacità di distrazione di certi mezzi, in un ambiente dove invece si deve imparare la propria capacità di concentrazione.
Ma attenzione nel legiferare, attenzione al controllare. Le parole che ho letto in una citazione del signor Giuseppe Fioroni, nella sua veste di Ministro della Pubblica Istruzione, mi hanno fatto rabbrividire. Il signor Fioroni infatti si auspica che l'immissione in rete Internet di contenuti sgradevoli venga proibito e sanzionato, a livello statale. La mia preoccupazione è per quello che potrà divenire sgradevole, secondo la legge.

Mi sovvengono così tante implicazioni, sulla libertà d'espressione, sui diritti umani, sull'educazione, che mi chiedo se ci sarà mai qualcuno in grado di collegarle fra loro. Qualcuno con la volontà di farlo, senza forzare moralismi.
Spesso comprendo pienamente lo sconforto del signor Benito Mussolini, che dopo aver comandato una sanguinosa dittatura, con tutti gli orrori di cui si è macchiò, finì per dire: "Governare gli italiani non è impossibile, è inutile".

venerdì, novembre 17, 2006

Illusioni eretiche


Ieri sera, mentre stavo cenando assai tardi, mi sono intrattenuto vedendo se qualche trasmissione televisiva avesse contenuti interessanti o almeno divertenti.
Nell'alternativa fra programmazioni ritrite, spazzatura e show sull'Italia che va male (con la conclusione sempre ripetuta che dobbiamo tenercela così), sono finito su La7, che mandava in onda delle considerazioni sui miracoli di Gesù Cristo.
Il signor Valerio Massimo Manfredi, noto romanziere interessato ai fatti di storia antica, conduceva il programma, che appariva come un collage d'interviste a personaggi sul campo.
Hanno quindi intervistato storici, illusionisti, psicologi, per capire (a loro dire) se ci fossero possibilità che i miracoli operati da Gesù fossero semplici illusioni, manipolazioni delle folle, e comunque quali altri collegamenti storici e religiosi vi fossero implicati.
Tutto l'insieme era corredato da immagini filmate di una rappresentazione dei fatti narrati, con un Gesù dai tratti somatici di un nord europeo moderno, come ci piace crederlo, mettendo da parte come prima scienza l'antropologia.
Eppure la conduzione e l'esposizione erano di taglio saggistico, per dimostrare che avevano scomodato i migliori esperti, e che tutti loro concordavano. Perché per realizzare un documento politicamente corretto nei confronti delle religioni, non c'è alternativa che ripetere pedissequamente quello che riportano i testi sacri. Va riconosciuto che gli articoli prodotti erano sicuramente gradevoli per ogni religione dell'area medio orientale ed occidentale, quali le religioni cristiana, ebraica ed islamica.
Insomma un interessante strumento di smussatura degli spigoli vivi fra le varie religioni, di questi tempi.

Scientificamente poi era tutta un'altra storia. E non è colpa mia.
Voglio dire che non sono io ad aver dato un taglio storico e scientifico alle vicende narrate, ma visto che l'hanno fatto loro, mi pare lecito valutarlo: questo è il metodo scientifico.
Va da sé che pure da ateo, non ho ovviamente alcuna difficoltà ad accettare la possibile esistenza nel passato del personaggio Gesù, così come la sua predicazione, i fedeli e le implicazioni sociali e religiose. Mi sembrano tutte perfettamente naturali.

La falla del ragionamento del Manfredi, e dei suoi collaboratori, è una sola, ma fondamentale -- pure mettendo da parte le tristi considerazioni antropologiche di prima.
Le riprove che hanno eseguito, con l'intervento d'illusionisti e maghi (quelli reali, che operano magie come illusione) partivano tutte da un assunto corretto nel senso religioso, ma totalmente falso nel senso scientifico: la considerazione era che tutto quanto è narrato nelle scritture antiche sia vero alla lettera.
E dire che oggi, in epoca moderna, basta seguire una finzione televisiva, come certe rappresentazioni di crimini ed indagini, per capire che qualsiasi narrazione, per quanto convincente, non è mai definibile vera, se non suffragata da fatti oggettivi.
Nella nostra epoca, in cui nonostante le prove documentarie, c'è chi non crede all'olocausto degli ebrei, all'atterraggio umano sulla luna, si crede comunque alla lettera alle ricostruzioni storiche fatte mille e settecento anni fa, di fatti avvenuti altri trecento anni prima. E non si tratta neppure di ricostruzioni ad opera di cronisti, ma di scritti resi compatibili ad essere adottati come testi sacri.
Quindi, narrando di un'epoca dove ancora la cognizione di causa ed effetto erano ai primordi, un'epoca dove i fulmini erano ancora rappresentazione divina, c'è davvero da chiedersi cosa ci fosse dietro ai miracoli?
Gli stessi cronisti del tempo, quando anche erano mossi da desiderio di oggettività, erano facili cadere in tranelli dettati dall'ignoranza - cosa che continua ad accomunarli ai cronisti odierni - figurarsi quel che poteva essere raccontato di un fatto misterioso da un testimone coinvolto emotivamente. Fra l'altro, ai suddetti miracoli avrebbero assistito folle intere, ma in fondo nessuno di loro ha scritto migliaia di diari degli eventi, così da poterli raffrontare, così l'evento raccontato rimane valido come se il testimone fosse stato uno solo.

E chissà per quanto ancora si potrà dissentire, anche in rete, su Internet, come faccio adesso.
Sì, perché se credevate che la rete globale fosse indipendente, strumento di libertà d'opinione, siete in alto mare.
Qualche giorno fa lo Stato del Vaticano è insorto contro la satira sul Pontefice, e sicuramente non è finita lì.
L'esempio di oggi è in un articolo di PuntoInformatico, che narra una vicenda a dir poco grottesca.
Un forum pubblico si trova a contenere frasi forti, offensive: gli offesi, sensibilizzati dall'evento, denunciano il fatto alla Procura di Catania, che procede all'oscuramento del forum. Il lato più assurdo è che chi si è sentito offeso non abbia consultato il moderatore del forum, per chiedere la rimozione dei messaggi offensivi, ma che si sia mosso da subito con il chiaro intento censorio.
La sottigliezza del vilipendio alla religione è tale che appunto non so quale sia il vero limite. In fondo negare l'esistenza di Dio non è già una grave offesa per la religione che si cita?
E dire che si pensa a certi personaggi della storia delle religioni come veri ciarlatani?
E' sicuramente illusione ed eresia, avere fede nel buonsenso.

Non avere paura
perché porto il coltello tra i denti
e agito il fucile
come emblema virile
non avere paura della mia trentotto
che porto qui nel petto
di questo invece devi avere paura
io sono un uomo come te

da Serial Killer (Franco Battiato, Manlio Sgalambro)

martedì, novembre 14, 2006

A che gioco giochiamo

Sono un appassionato di giochi da sempre, lo ero nell'infanzia e in forme diverse ho mantenuto l'interesse nel tempo.
Giocare può essere stimolo per la fantasia, l'immaginazione, e anche per l'intelligenza, quando il gioco ci sfida a trovare nuove soluzioni.
In fondo anche scrivere articoli su un weblog è un gioco: comporre frasi corrette, stimolare il proprio pensiero a connettere insieme fatti e opinioni diverse, esprimersi seguendo un ragionamento.

Anzitutto una premessa: parte del contenuto che segue era già scritta. Avevo iniziato la bozza di un articolo al 26 ottobre scorso, poi mi sembrava comunque incompleto, insoddisfacente, e l'avevo lasciato lì.
Visti gli ulteriori sviluppi sull'argomento videogiochi, nei giorni recenti, lo riprendo e riparto da questo.

Giocare d'intelligenza (bozza del 26/10/2006)
I giochi che più mi affascinarono, fin dalla giovane età, furono i giochi elettronici. Nascevano infatti negli anni '70 del secolo scorso, in un'epoca in cui cominciava a diffondersi in modo preponderante la tecnologia elettronica.
Ricordo ancora con una certa invidia qualche compagno di scuola, che già allora possedeva un videogioco tascabile come il Mattel Auto Race, che ormai è scomparso dalla memoria dei più.
Erano giochi semplici, ben lontani da un'odierna console portatile, come la Sony PSP.
Per non parlare poi dei primi piccoli calcolatori per il gioco degli scacchi, che trovavo affascinanti per la loro capacità "predittiva" del gioco.
Con l'evolversi della tecnologia si sono potute realizzare sempre nuove funzioni, è cambiata la complessità dei giochi così come la rappresentazione degli stessi (immagini, suoni) e l'interazione con il giocatore.

Eppure il gioco è da sempre nemico di molti, per motivi assai diversi.
E' sicuramente nemico degli stessi giocatori, quando diventa ossessione, e non vale solo per i giochi elettronici, ma anche per quelli convenzionali: basti pensare a chi si riduce in bancarotta con i giochi di carte o con le scommesse.
Probabilmente è stata questo tipo di pericolosità sociale a preoccupare capi religiosi o di governo, fino dagli albori del gioco. Come anche è stata questa dipendenza (con una certezza sugli incassi) a mantenere felici altri capi di governo (e religiosi).

Negli ultimi anni c'è poi un periodico interesse, da parte di certi settori dei mezzi di comunicazione, verso la presunta pericolosità dei videogiochi. Il format classico ricalca la linea "chi prende parte ad un gioco, dove si finge l'uccisione di un avversario, non può che avere pulsioni omicide, anche fuori dal gioco".
Negli Stati Uniti d'America sono state proposte nel tempo delle leggi sempre più restrittive, nei confronti della vendita di videogiochi ai minori. Per non parlare di paesi come l'Australia, dove un videogioco può essere bloccato all'importazione, anche per i maggiorenni -- non solo per i giochi violenti, ma anche quelli con espressioni di sessualità troppo esplicita.
Va da sé che la maggior parte di queste proibizioni è facilmente riconducibile a fanatismi, perché se da un lato è comprensibile la riduzione dell'esposizione dei minori alla violenza, dall'altro è eccessivo il proibizionismo che spesso viene proposto.
C'è sicuramente un controllo da adottare, prima di dare in mano ad un ragazzino alcuni tipi di giochi. Questo vale per un go-kart, o un razzo giocattolo, considerando la pericolosità fisica, ma deve ovviamente valere anche per un videogioco, quando è rilevante la pericolosità nel senso psicopedagogico.

Tutto questo vale per il politically correct, come amiamo dire dimostrando scarsa proprietà di linguaggio (perché non dire semplicemente educazione o correttezza?).
Ma non è solo il linguaggio a scarseggiare.
In compenso c'è abbondanza: violenza e comportamenti sessuali confusi sono all'ordine del giorno, sulle reti televisive e sulla carta stampata. Chi legge già qualche mio articolo sa bene che non sono affatto un moralista.
Il punto è sul finto perbenismo, che oggi vieta e tiene sotto controllo i videogame con immagini forti, e domani ci fa vedere nel telegiornale qualche guerra in corso nel mondo, e a seguire un programma dove l'attrazione principale del telespettatore è indirizzata verso qualche bella ragazza seminuda. Ci piace farsi beffa di noi stessi, sembra.

Tutta questa riflessione è nata da un articoletto che ho letto poco fa, una vera ode al ridicolo.
Il signor Daniele Semeraro, che non conosco assolutamente, ci racconta di una sua visione fantasiosa sul mondo dei videogiochi. C'è da dire che la reciprocità del Semeraro è di non conoscermi assolutamente, e altrettanto pare evidente della sua conoscenza sul mondo dei videogiochi.
E' altresì lecito osservare che potrei sbagliarmi: magari ha scritto sotto dettatura di editori o pubblicitari.
Nel mondo incantato del Semeraro, e in quello del signor Aldo Toscano, che mi si dice direttore del dipartimento Scienze Sociali all'università di Pisa, stanno sparendo i giochi che contengono violenza. Insomma, siamo tutti più buoni.
Già alcuni anni fa, dopo gli attentati terroristici del 2001 negli USA, qualcun altro aveva tentato di propagandare una storiella analoga. Fu raccontato che infatti nessuno più aveva voglia di giochi di guerra, dopo le migliaia di morti.
Sinceramente, dopo articoli del genere, mi chiedo sempre un paio di cose: quanto credono idioti i loro lettori e quanto a lungo?

L'accozzaglia di notizie in quell'articolo è poi contraddittoria. Viene citata una olimpiade dei videogiochi, come se fosse dimostrazione che il fenomeno è importante (quello della diffusione dei giochi privi di atti violenti). Solo che il Semeraro (autore anche dell'altro articolo che cita) non ricorda evidentemente che i giochi più quotati sono quelli in cui l'avversario viene ucciso nell'azione di gioco.
A chiunque piaccia giocare con quel tipo giochi d'azione, ma anche quelli strategia in tempo reale, sa che sono i titoli trainanti del settore -- e fra questi giocatori sono incluso anch'io.
Un gioco come The Sims è divenuto sì un simbolo, ma rimane una singolarità.

I videogiochi di guerra, indubbiamente, non sono la guerra.
La vera rappresentazione della guerriglia, dell'odio, della violenza, per chi la vuole a portata di mano, è in ogni città. Nelle periferie degradate, sì, ma soprattutto nelle settimanali partite di gioco del calcio.
Quanto alla scarsità d'intelligenza è dilagante: se la tifoseria calcistica è emblema di quella al maschile, le frotte di ragazze emule ed invidiose delle soubrette televisive ne sono la controparte femminile.
Resto in trepida attesa del prossimo articolo del Semeraro, o di altri suoi colleghi, in cui immagino mi verranno a spiegare che la violenza, nei paesi poveri del mondo, sia in diretta relazione con i videogame.

[...]

Improvvisa violenza (scritto oggi)
Rileggendo l'articolo di venti giorni fa c'è di che sorridere: viene da chiedersi se nessuno mai si metterebbe a correlarli, come faccio io qui.
Eh sì, perché venti giorni fa i giornalisti e gli esperti di scienze sociali ci raccontavano che i videogiochi stavano diventando un'apoteosi disneyana, mentre oggi si scomodano nuovamente giornalisti e altri esperti per ammonire che i videogiochi stan diventando una delle cause della violenza giovanile.

Con un minimo di spirito critico è invece evidente la mediocrità giornalistica.
E' anche chiaro che se un argomento del genere (d'importanza minore rispetto ad altri fatti più gravi della società) diventa una beffa del lettore, a maggior ragione possono esserlo anche altri fenomeni -- di politica, psicologia, ricerca, e così via.
Vi sentite canzonati dai giornalisti ed esperti? Dovreste, perlomeno.

La notizia di questi giorni, sulla violenza nei videogiochi, gira intorno ad un titolo per Sony Playstation, già pubblicato in Giappone col nome Rule of Rose, in uscita a giorni anche in Europa.
Prendo con estrema cautela le recensioni del gioco, che fatte da giornalisti, com'è normale, potrebbero finire per essere tendenziose.
Su un articolo di Panorama, replicato anche sul sito di Mytech, ne leggo alcune delle caratteristiche salienti.
Il titolo si presenta come un survival horror, genere piuttosto definito nel panorama videoludico. Solitamente impegna il giocatore nell'impersonare o nel controllare un personaggio, in un'ambientazione da film dell'orrore, dove la finalità è risolvere enigmi e fuggire dai pericoli.
Fra i titoli survival horror è è classicamente molto comune la violenza a profusione, visto che i pericoli per l'alter ego del giocatore sono spesso creature consimili a quelle dei film d'orrore, quali esseri demoniaci, morti viventi, fino ai classici da thriller, come certi assassini seriali.

La differenza, in questo caso, la fa l'insieme di aberrazioni da parte dei personaggi violenti.
Non solo si tratta di comportamenti violenti, ma anche deviati e perversi, ad opera di personaggi molto giovani, tipicamente adolescenti.
La ragazzina, alter ego del giocatore, subisce quindi violenze fisiche e psicologiche, in un ambiente profondamente disturbato, dove quello che preoccupa chi ha visionato il gioco è la giovane età di tutti i soggetti nel cast.
Mi appare evidente che ci sia una profonda preoccupazione che certi comportamenti vengano presi ad esempio, se chi gioca s'identifica nell'ambiente e nei personaggi. Non è quindi un gioco raccomandabile a degli adolescenti, e perché questo avvenga serve sicuramente qualche impedimento della vendita ai molto giovani, così come dovrebbero essere sensibilizzati i genitori.
Vietarlo del tutto?

Il signor Walter Veltroni ha commentato che, a suo parere, "È assolutamente impensabile che un videogioco dai contenuti violenti venga commercializzato e distribuito nel nostro Paese".
Il ridicolo di cui lo copre una frase del genere dovrebbe come minimo farlo desistere dagli incarichi istituzionali che ricopre, ma non credo che avverrà.
Anzitutto dovrebbe spiegarci cos'ha, questo nostro Paese, per ritenersi immune ai contenuti violenti. Come osservava anche un lettore di Punto Informatico, con quale ipocrisia si alza il dito accusatorio verso i videogiochi, mentre la stessa televisione di Stato adotta la violenza per rialzare gli ascolti?
Il prossimo passo sarà il blocco della totalità dei film d'azione provenienti dagli Stati Uniti d'America? Perché è evidente, in nessuno di questi manca la violenza, diretta, gratuita, senza il velo della grafica di un videogioco.
Ho come l'impressione che quel Paese citato dal Veltroni sia invero piuttosto ristretto, al massimo allargato al suo condominio: perché di quell'altro Paese, quello dove vivo anch'io, mi sembra non abbia alcuna percezione.

Come nella fiera dell'ovvio, il Veltroni prosegue: "Credo sia perversa la mente di coloro che hanno ideato e realizzato un videogame del genere. I nostri giovani già vivono tempi difficili, con la realtà della violenza presente quotidianamente su tutti i media. Non si meritano certi prodotti ed è giusto lanciare un allarme e mettere in campo immediate azioni concrete in difesa del diritto a crescere senza condizionamenti tesi ad esaltare la ferocia, l'odio e la morte".
Quali azioni concrete vi aspettate di vedere?
La messa al bando dei reality televisivi, dei film americani, oppure la messa all'indice dei videogiochi?
Non credo che serva un calcolo complicato, per sapere cosa rende di più, come introiti.

La cultura giapponese, fonte di questa impasse, è sicuramente molto distante dalla nostra. Per non parlare del livello di psicosi da cui è permeata, visti gli eccessi di cui spesso si alimenta.
Eppure non è esecrabile tout-court, va compresa come si fa con molti fenomeni distanti.
Ma siamo sicuri che le perversioni siano solo lì?
Non è perverso anche il meccanismo della nostra censura?
Ripenso ad esempio al violentissimo romanzo di Ryu Murakami, Tokyo Decadence, uscito anche in versione cinematografica. La trasposizione nel film è anche meno violenta del racconto, eppure la pellicola uscita in Italia era censurata, tagliata, seppure vietata ad un pubblico minore di 18 anni -- e fra l'altro non erano scene violente, ma di atti sessuali che nei film puramente pornografici non vengono certo omesse.
Perché ci viene permesso di conoscere solo una parte delle cose?
Perché mai, da adulti, consenzienti, ci viene permesso di conoscere solo una parte della violenza?

A che gioco stanno giocando gli amministratori del Paese?
Perché se ce n'è uno violento, da vietare a tutti, è quello.