sabato, ottobre 22, 2016

Buona socialità

Nel libro "Del buon uso della religione", Alain de Botton presenta una visione tanto affascinante quanto irreale, utopistica. Si chiede infatti, dato che nello spirito delle religioni c'è sempre un intento altruistico, di buona socialità, come questo si possa traslare in una società laica, finanche atea.
Letto il libro qualche tempo fa, mi ero già fatto un'opinione personale in proposito. Quest'oggi, ripensando ad altre questioni, mi si è ripresentata memoria delle argomentazioni di de Botton, e di alcune sue errate considerazioni.

Il principio di fondo che inganna de Botton sembra essere la buona socialità come oggetto delle religioni, o anche come entità fondante. In realtà i principi fondamentali delle religioni riguardano il culto della (o delle) divinità, ed a questo scopo coinvolgono il maggior numero possibile di adepti. Mantenere uniti questi adepti, creare il gruppo sociale, che si rafforzi numericamente, e quindi abbia un peso importante, è successivamente un processo sociale. La buona socialità è quindi di per sé un mezzo, non il fine. Nel nostro essere animali sociali si è poi data una spiegazione aggiuntiva, per cui la buona socialità è parte stessa del principio che l'ha prodotta: questo è probabilmente l'inganno in cui anche de Botton è caduto.

Con questo, diventa difficile prendere come unico fine la sola buona socialità, e forgiare tutto intorno ad essa. Ne sono testimoni le ideologie politiche comunitarie dello scorso secolo, che hanno preso derive del tutto diverse, e sono decisamente naufragate: non si può forzare chiunque ad essere semplicemente altruista. Serve un argomento di fondo più forte, normalmente prevaricante (il giudizio divino, l'imponente condanna metafisica, la sua applicazione forzosa).
La nostra socialità, da sola, non riesce a mantenere uniti gruppi eterogenei per lungo tempo. Amiamo vivere in modo sociale, ma affinché funzioni ci serve uno scopo superiore.
C'è poi da notare come le religioni abbiano unito sotto uno stesso scopo anche chi non ama la socialità, quali gli eremiti. Difficile proporre un modello alternativo che raggruppi anche i misantropi, o gli asociali di vario tipo.

L'unica società riunita, anche quando ci sono evidenti divisioni, sembra essere quella dell'utopico futuro nella fantasia di Star Trek. Non che io la trovi impossibile, ma dati i trascorsi fallimenti, e le continue divisioni sociali, mi pare altamente improbabile.

lunedì, agosto 22, 2016

Invisibili divisioni

Qualche volta si conosce un argomento un po' più della media, magari perché si è professionisti del settore (e questo è il caso che mi capita più di frequente), oppure semplicemente perché si conoscono più dettagli di altri che ne parlano.
Altra cosa ancora è essere attenti lettori o ascoltatori, tali da capire quando un discorso rivela inesattezze, nasconde informazioni, oppure è completamente errato. In questo caso non aggiungiamo conoscienza personale all'argomento specifico, ma ne creiamo a partire dalle capacità analitiche.

Un breve articolo che ho letto oggi su un quotidiano, cita nuove regolamentazioni in Italia per il glifosato, un erbicida (o quello che più propriamente si dovrebbe dire un agrofarmaco) in uso da lungo tempo.
L'articolo recita che "su questo prodotto il mondo scientifico si era diviso".
La formula delle "divisioni" è una classica argomentazione da stampa generalista, che è solita non portare fatti concreti a sostegno, ma ha lo scopo di acquisire l'interesse dei lettori con il tema retorico della presunta incertezza che regna nel mondo scientifico.
La complessità della scienza, riportata al livello di conoscienza medio, viene banalizzata dicendo che "neppure gli scienziati ne capiscono granché". Ovviamente non è vero, ma la riduzione del pensiero scientifico, del progresso della conoscenza, ad un'ignoranza diffusa, rende tutto meno pauroso per le persone semplici.

La prima volta che ho veramente riflettuto su questo fenomeno è stato una decina d'anni fa, vedendo il documentario "Una scomoda verità", sui cambiamenti climatici. Nel racconto di Al Gore, si rifletteva sul fatto che la stampa generalista ci parlava di scienziati divisi sull'argomento, quasi incerti nel sapere se tutto fosse davvero causato dall'influenza umana sul clima. Al contempo nelle pubblicazioni scientifiche, nessuno metteva in dubbio che la causa degli sconvolgimenti climatici, nell'ultimo secolo, sia sicuramente il modo in cui usiamo le risorse del pianeta.
Quindi la stampa generalista proponeva una tesi senza fondamenti, ma probabilmente più accettata dall'uomo comune.

In fondo il giornalismo non è solo cronaca, ma ci ha abituati alla speculazione, proponendola come fattualità.
Siamo abituati a leggere fatti di cronaca in cui insieme alla notizia ci viene data la spiegazione, al furto ci viene subito proposto chi era il ladro, prima ancora delle indagini. Abbiamo uno sfrenato bisogno di risposte immediate, tanto più è grave e pressante il caso: non riusciamo a concepire l'omicidio irrisolto, serve velocemente una soluzione che non ci lasci nell'incertezza.
Il metodo viene esteso infine ad ogni argomento giornalistico, dallo sport alla scienza e tecnologia.

E il glifosato?
Leggo ancora nell'articolo citato all'inizio, che lo IARC l'ha dichiarato "probabilmente cancerogeno". In questa frase risalta la parola "cancerogeno" su tutto, per cui l'articolo confida che il lettore si perda altri dettagli. Si dice poi come l'EFSA abbia invece dichiarato che è un prodotto "sicuro" per la salute; ora l'esperienza ci insegna che se qualcuno solleva una parola come "cancerogeno" (anche se preceduta da "probabilmente") ormai è dichiarata la sua nocività, e nessuno potrà mai più trasformarlo in "innocuo".
C'è poi un'aggravante, quella del prodotto chimico, che rende irrecuperabile il salvataggio del glifosato. Perché se si fosse trattato di un prodotto naturale, si sarebbero mobilitate le milizie del mondo naturale, biologico, un po' com'è accaduto quando esattamente le stesse dichiarazioni sono state sollevate da IARC sulla carne rossa.

Fate un esperimento: se dichiarate di essere probabilmente ricchi, e qualcuno mostra le vostre tasche vuote dicendo che sicuramente non è così, per molti diventa facile credere al secondo. Quando invece le cose si complicano, come per una dimostrazione scientifica, restano in pochi a voler ascoltare una spiegazione complessa.

Nel prezioso libro "Contro natura" di Bressanini e Mautino, si ricorda come una grande quantità di persone sia incapace anche solo di ascoltare spiegazioni complesse, figurarsi l'analizzare i contenuti.
In quel caso la divisione semplice degli sciocchi è fra cibo naturale e cibo innaturale, senza considerare che la cosa è molto più complessa, tanto che non esistono né cibi naturali né cibi contro natura, come spiegato dagli autori. Ironicamente, per la smania di semplificare, sono citati un po' di paradossi in cui certi alimenti vengono tutt'oggi prodotti e raccomandati dalla filiera del biologico e naturale, mentre sono nati da esperienze molto più imbarazzanti degli inutilmente odiati OGM.

lunedì, aprile 18, 2016

Energica poliarchia

La comunicazione tramite l'internet ha rafforzato e rinsaldato alcune relazioni umane, che soffrivano delle lunghe distanze o della difficoltà nel trovare chi condivide alcune delle proprie passioni. Psicosi incluse, certamente.
Parimenti, la diffusione della conoscenza in ogni ambito si è ampliata. Così come allo stesso modo il dilagare dell'ignoranza ha trovato uno spazio virtualmente infinito, in cui allargarsi.
Direi semplicemente che la comunicazione sempre più facile è divenuta l'amplificatore di qualsiasi interazione umana, in positivo e in negativo.
Se mi soffermo qui a discutere i lati oscuri, è solitamente sia per il fastidio che mi arrecano, sia perché trovo interessante analizzare il comportamento umano. Pensate a qualsiasi comportamento o idea priva di fondamento, di logica, di buonsenso, e improvvisamente qualche social network fa eco ad un gruppo di migliaia e più persone che ne rivendica una certezza di vita.

I numeri, la matematica, per quanto esatti, non fanno mai dubitare chi ha delle certezze. Questo è il primo cardine della limitatezza umana.
Nel referendum popolare che si è chiuso ieri, relativamente alla cancellazione di concessioni di estrazioni di idrocarburi, ho letto una di queste curiose perle di ignoranza popolare. Aldilà infatti di motivi e risultati, anche chi non ha vinto alcunché ha dichiarato vittoria, perché vantava un vantaggio relativo molto alto. Giochiamo per un attimo con i numeri, per capire cosa significano.
Vincere un referendum, considerando la soglia minima di votanti affinché questo sia accettato, può essere veramente una piccola cosa. Se si necessita del 50% + 1 dei voti, su un 50% + 1 dei votanti, con una buona approssimazione si può dire che basta avere in favore il 25% dei votanti, in caso di bassa affluenza, oppure serve fino al 50% in caso di alta affluenza.
In pratica, ad un minor numero di votanti può anche essere più favorevole vincere, dato che la maggior parte dei votanti sarà già propensa ad appoggiare il quesito, e quindi motivata alla consultazione.
Nell'esempio della giornata di ieri, si è ad esempio espresso un 85,2% di pareri positivi, che dato un 31,2% di votanti, risultano in un 26,5% degli aventi diritto al voto. E' altamente probabile che un aumento dei votanti avrebbe potuto portare altri significativi risultati ai contrari al quesito, se si considera che i favorevoli sono stati mobilitati da gruppi con alto livello di comunicazione.
Qualunque speculazione se ne voglia trarre, un dato oggettivo è che il quorum non è stato raggiunto, il referendum è fallito. Quindi è insensato gridare vittoria, quando questa non c'è.

La breve memoria storica poi porta (molti) a dimenticare anche altri esempi passati. Nello scorso 2011, furono proposti dei quesiti referendari diversi, che probabilmente per una più ampia base di interessati, raggiunsero la sufficienza per il quorum, con circa un 54% degli aventi diritto.
Le tematiche sollevate, genericamente sul diritto ad una proprietà pubblica dell'acqua, giunsero a percentuali favorevoli fin oltre il 95%, risultando quindi oltre il 51% degli aventi diritto. In questo caso la vittoria era palese, qualsiasi voto in più non avrebbe cambiato questo risultato.
Nei giorni successivi al referendum però avvennero una serie di eventi politici volti ad annullare il risultato referendario, uno di questi dell'allora governo in carica, poi annullato dalla Corte Costituzionale, ma anche a livello regionale furono messi in atto una serie di interventi in questo senso. Ad esempio l'attuale Presidente del Consiglio, all'epoca presidente dall'azienda territoriale Toscana, riorganizzò la struttura in modo che il referendum non fosse applicabile, e tutto rimanesse sotto controllo privato.


La dimostrazione principale resta quindi quella che i referendum trovano applicazione solo dove gli interessi economici e politici non creano sufficiente contrasto.
Torno sempre a ripeterlo, ma in fondo la democrazia è solo una moderna forma di poliarchia, dove si è convinta la popolazione di poter sempre decidere del futuro.

Davvero i promotori del referendum recente credevano che chiudere gli impianti di estrazione di petrolio e metano avrebbe cambiato lo scenario energetico?
Perché da un lato c'era chi sosteneva la chiusura per la scarsa importanza sul piano strategico (una quota ridotta d'energia derivante), dall'altro chi prometteva un cambiamento fondamentale verso le rinnovabili (incomprensibile, se la quota non era strategica). Dal mio modesto punto di vista, qualunque fosse la condizione, nessuno avrebbe garantito che non avremmo usato gli stessi idrocarburi, però importandoli da altre nazioni, con altri costi.
Davvero c'è chi crede che per cambiare la gestione energetica si debbano fare scelte talebane chiudendo i rubinetti del gas? Tutti dovremmo convertire la caldaia a gas per acqua calda e riscaldamento? E tramite quale altra fontedovremmo scaldarci? Certo non con la legna, come crede qualche ingenuo (che dimentica come questo materiale naturale produca più inquinanti del metano).


lunedì, giugno 22, 2015

Intelligenza tecnologica

Ogni volta che leggo articoli di giornali e pubblicazioni per il consumo di massa, mi preparo sempre alla
banalità, alla semplificazione. Comincio a sentirmi decisamente prevenuto verso l'umanità intera, mi chiedo appunto quale distorsione mentale mi porti a vedere le cose decisamente in negativo: essendo io una persona costruttiva, cerco di convincermi che sto proprio sbagliando.
In fondo non è possibile che il livello di conoscenza, il semplice buon senso, scendano così in basso come li vedo io. Ecco, preferisco vedermi come un semplice misantropo, così da rincuorarmi: è un mondo migliore di come lo dipingo, vero?

Non fai in tempo a pensare qualcosa di positivo, che subito arriva chi te lo smonta.
Ieri mi è capitato di leggere un articolo di quotidiano su come "gli italiani sognano una vita più smart" (sic). La commistione di vocaboli in voga, in una frase dal significato minimo, attira subito la mia calamita per le idiozie. Così la seguo e mi leggo il contenuto, tanto per avere conferma.
Tutto nasce da uno studio promosso da Ericsson e realizzato da Luiss Business School, praticamente un'azienda che commissiona ad un'università che si occupa di nuovi manager una ricerca. E' un po' il concetto direttamente inverso di ricerca scientifica: anziché studiare un fenomeno a partire da quello che può smentirne l'esistenza, si studia il modo per dimostrarne l'esistenza in qualsiasi modo possibile.
Cosa può desiderare di dimostrare un'azienda del settore tecnologico? Che la tecnologia è indispensabile, magari. Beh, ma viene da pensare che in fondo, nell'ultimo secolo, l'utilità e i benefici della tecnologia sono stati spesso visti un po' da tutti. Quindi servono alcuni spunti nuovi, altrimenti l'argomento non genera ulteriore interesse.
I punti che batte il quotidiano (e non oso leggermi la ricerca originaria) sono il desiderio irrefrenabile degli italiani verso la nuova tecnologia, e lo stato "iper-tecnologico" (sic) del cittadino medio. Eh sì, perché ben il 40% (vi si cita) "trascorre oltre quattro ore al giorno su internet". La deduzione è equivalente a dire che chi trascorre decine di minuti a leggersi il pannello integrativo di un divieto di transito assurge allo stato di letterato. Che dire poi di chi passa nottate a scarabocchiare con la vernice spray i muri o i vagoni del treno, è sicuramente iper-artistico.

I contenuti, la comprensione, non sono di alcun interesse per chi vende un prodotto, se non sono indirizzati al proprio prodotto, all'immagine positiva di questo.
Un libro diventa caso editoriale se vende un buon numero di copie. Un'esposizione d'arte diventa prodigiosa se stacca un buon numero di biglietti paganti. Nessun profitto, nessun onore.

Per cui, visto che sono prevenuto, sono portato a pensare che i bisogni dei cittadini digitali, della società connessa, verso una serie di nuovi servizi elencati nella ricerca, ha sicuramente delle risposte. E per tutte queste risposte c'è l'azienda che ha commissionato la ricerca.
E' interessante la strategia proposta già dalla Apple di Jobs, la dichiarazione verso gli utenti "voi siete intelligenti, siete all'avanguardia, ecco perché avete bisogno dei nostri migliori prodotti". Il consumatore non deve sentirsi l'idiota che accetta qualsiasi prodotto nuovo, ancorché un po' scadente, come succedeva con l'elettronica degli anni '60 e '70 del secolo scorso. E' anzi un bene che ci sia una vasta produzione cinese mediocre, che ricordi a tutti di pretendere la qualità che ogni iper-tecnologico cittadino merita.
Se potessero, come la sognerebbero una vita più intelligente!

venerdì, luglio 04, 2014

Versioni semplificate

Mentre il mondo continua a crescere, nella nostra conoscenza (ed intendo sia scientifica così come più semplicemente di fatti, luoghi e persone), diventa inevitabile eseguire una cernita, una selezione. Nessuno di noi potrebbe mai tenere in mente troppe informazioni, qualunque sia la loro natura o rilevanza.
Quello che è rilevante è invece la modalità con cui selezioniamo il materiale utile da quello inutile.

Anzitutto partiamo dalla fonte delle nostre informazioni. Di un bel viaggio ricordiamo alcuni luoghi o divertimenti significativi, così come di un bel libro ci rimane l'immagine dei personaggi o dei luoghi che più abbiamo vissuto nel racconto. Questi sono due esempi di esperienze dirette, per quanto il termine (filosoficamente) possa divenire ambiguo talvolta.
Per quanto il racconto di un libro sia indiretto, l'averlo trovato interessante fornisce un'esperienza diretta su come lo abbiamo immaginato, percepito.

Nella quotidianità, per la gran parte di noi che non vive da eremita, i mezzi di comunicazione di massa sono una ricca fonte di esperienze che viviamo da molto indirettamente fino quasi ad essere dirette. Vedere in video un evento sportivo, o un documentario approfondito, ci porta ad un passo dalla sua esperienza diretta, se la rappresentazione fornita è sufficiente.
Eppure non è sempre possibile dare un'informazione sufficientemente completa, per cui chi narra, chi espone, normalmente è obbligato a creare versioni semplificate.

Quanta semplificazione c'è nei racconti di cronaca, politica, eventi sociali?
Senza un approccio critico, senza un'abitudine al pensiero analitico, si finisce per fare propria l'esperienza diretta che ci viene pilotata. In questo modo si finisce per vivere non solo un sottoinsieme del mondo, ma un sottoinsieme distorto del mondo.
Quale fatica, combattere la superficialità.

sabato, dicembre 21, 2013

Carta stampabile

E' sempre interessante vedere quello che i mezzi di comunicazione più diffusi ci raccontano. Quello che trovo da approfondire è l'immagine descritta, in relazione all'immagine percepita (dagli utenti) e a quella reale, dei fatti.
Mentre il primo punto di vista è abbastanza chiaro e univoco, prendendo il mezzo di comunicazione come descrittivo, gli ultimi due sono difficili da ottenere.
Cosa percepiscono i lettori di un quotidiano, o i cittadini in generale, di un fatto di cronaca o di politica, è difficile da dirsi vista la vastità di pubblico.
Difficilissimo è poi dire quali siano i fatti reali di una notizia.
Prendo spesso ad esempio il quotidiano "La Repubblica", la cui importanza può derivare anche dall'essere il quotidiano più letto nel paese (assumendolo come dato reale).
La prima cosa che mi risulta semplice è notare la varietà di temi e di narrazioni, già anche dalla prima pagina della versione on-line. Desta perplessità il tono degli articoli: se l'apertura è data (praticamente sempre) da un articolo su notizie negative (delitti, inefficienze, scandali), gli altri articoli (soprattutto di spalla) hanno spesso tanti contenuti divagativi, magari anche divertenti.

Faccio un esempio. Oggi leggo di un'inefficienza della politica, di un suicidio di un disoccupato, e della povertà che avanza. Al contempo vedo i titoli sui campionati automobilistici, su quelli di calcio, elogi a case di cosmetici e menù di Natale leggeri, per non ingrassare.
Raccontato così, non mi lascia che un senso di indignazione, per come vengo trattato, in quanto lettore. Mi viene evidente pensare che ci debba essere un senso di compensazione, per necessità pubblicitarie. La politica non funziona, ma siamo forti nello sport. C'è chi muore di povertà, ma ci dobbiamo mettere a dieta per essere belli.
Questo tipo d'informazione mi appare decisamente disfunzionale, se non offensiva.

Non se le cavano poi molto meglio le testate più impegnate sui temi seri. Solitamente, per essere prese ancor più sul serio, si abbandonano ad iperboli per ogni notizia negativa. Appagano quello che definisco l'arrabbiato da bar, il frequentatore che non vede l'ora di poter ammonire più persone possibili dei disastri di politica, economia, ambiente.
Qui la bilancia deve essere fatta pesare decisamente su un lato: tutto è male, c'è un complotto ben preciso perché le cose vadano male. Qualcuno è anche solito aggiungere che una volta andavano meglio, e quasi nessuno lo contesta: la memoria storica è così breve che del passato si ricordano solo fatti meravigliosi (se non altro perché si era più giovani).

Meglio non approfondire poi la comunicazione delle riviste di moda o di costume. E' ovvio che in questo caso si cerca di portare tutto verso il bello e il piacere. E' un mondo felice, con i giusti vestiti, con la crema che cura(!) le imperfezioni e con il telefono cellulare più alla moda.
Per chi poi potesse dubitarne, ci sono chiari esempi di personaggi famosi e loro familiari, immagine della felicità. E quando non sono felici, per divorzi o litigi, è bello parlare di loro, anziché di noi: siamo felici di non essere nei loro panni, stavolta.

Esiste un modo di fare informazione senza raggirare i lettori o gli spettatori?
Probabilmente no: finirebbe per essere un po' troppo piatto, per essere interessante.
Magari però sarebbe bello riuscire a ridimensionare l'arrabbiatura dopo una brutta notizia, pensando di cambiare qualcosa nella società che ci circonda, anche in piccolo. E sarebbe bello arrabbiarsi dopo un articolo sulle meraviglie di qualche rimedio per la felicità, pensando che non sia ragionevole essere raggirati così facilmente.
Insomma, cercare i dati reali rimane quasi sempre a nostro carico. Difficile è dire quanti ne siano capaci, dopo essere stati disabituati al ragionamento logico da parte di ogni possibile mezzo, diseducati con vera facilità.

***

Arrivando alle previsioni per il nuovo anno, mi pare evidente che non ci siano le basi perché qualcosa in questo paese migliori. Siamo abituati come alle grandi dichiarazioni non si dia mai seguito a grandi fatti, per cui non ci sono risposte diverse dal solito.
L'unica soluzione possibile, a mio modesto parere, rimane sempre quella educativa. Per combattere i delitti di qualsiasi natura (anche di una classe politica corrotta o incapace) è necessario che una schiacciante maggioranza di persone si ritrovi in condizione di dimostrabile onestà. Questo può isolare e accerchiare i delinquenti, per poi renderli avulsi dalla società. Se invece il motivo primario per cui non si pagano le tasse è l'evasione a scopo di profitto, è difficile contestare l'esosità della politica.
Per assurdo, le aziende in bancarotta stanno facendo da giustificazione per chi invece evade arricchendosi: i secondi citano i primi ad esempio di come le code vadano male, fingendo che sia così anche per loro.
Mettiamo una pietra tombale su questo paese: non ci sono le prospettive perché alcunché vada mai bene, solo perché al massimo vada meno male del solito. E decisamente non basta.

venerdì, agosto 31, 2012

Energia punita

Ho letto nei giorni scorsi un breve reportage su un argomento che scatenava il mio interesse negli ultimi anni, la costruzione del reattore nucleare ITER, il più grande esperimento al mondo per generare energia da fusione atomica.
Spiegata in poche parole, l'energia da fusione potrebbe essere la vera fonte di energia quasi inesauribile (rispetto alla nostra vita sul pianeta), con un impatto ambientale zero, e con un'altissima sicurezza dell'impianto: le radiazioni prodotte sono infatti ben confinate, il più piccolo guasto non può che renderlo innocuo. La criticità tecnica di un simile sistema è infatti farlo funzionare: allorché smettesse di funzionare si estinguerebbe immediatamente tutto il processo di fusione.
L'energia da fusione è dello stesso tipo di quella prodotta dal nostro sole, ma che per i nostri piccolissimi scopi umani potrebbe essere prodotta con pochi grammi d'idrogeno, già in grado di fornire centinaia di MWh.
Un procedimento teoricamente semplice da comprendere, ma con delle enormi difficoltà realizzative, visto che gli atomi di quella piccola quantità di materia dovrebbero essere fusi e ricombinati alla temperatura di centinaia di milioni di gradi, in un anello che li tiene sospesi nel vuoto tramite potenti magneti. Una piccolissima massa infuocata, che se smettesse di muoversi come voluto cadrebbe nel reattore con un danno ambientale nullo (toccherebbe altri materiali, si spegnerebbe la reazione istantaneamente), ma carissimo a livello tecnico ed economico (il reattore ha un costo di miliardi di Euro).

ITER è diventato quindi il più grande esperimento mai realizzato al mondo, con un contributo tecnico ed economico di tutte le nazioni più avanzate a livello tecnologico e scientifico. Quasi la metà dei fondi provengono dall'Unione Europea, ed il restante è diviso equamente fra Stati Uniti, Giappone, Russia, Cina, India e Corea del Sud.
Ecco che qui sorgono le prime difficoltà: oltre a dividere le quote di partecipazione in denaro, come sono suddivisi i compiti della realizzazione tecnica e progettuale?
Il progetto sembra essere cresciuto in modo scoordinato, i costi sono lievitati, le parti che lo compongono hanno avuto difficoltà di accoppiamento fra loro, e altrettanto i tempi realistici di completamento sono cresciuti di parecchi anni.

E' opinione del tutto personale che aldilà delle complicazioni tecniche, ci sia una buona quantità di caos nel progetto, introdotta deliberatamente.
Pensiamo per un attimo alle altre fonti di energia. Per i combustibili fossili è ben chiara l'origine, e le guerre per i territori ricchi di risorse non sono delle novità. Qui invece è in ballo il know-how, la conoscenza tecnologica che permetta di replicare un impianto per la fusione nucleare ovunque: nessuno avrebbe particolari agevolazioni da risorse locali o siti geologici, il combustibile per un'intera centrale è in fondo disponibile anche in un secchio di acqua di mare. Non c'è quel vantaggio che permetterebbe ad alcune nazioni la supremazia energetica, se non per i costi d'impianto: una volta assodata la tecnologia, potrebbe essere portata ovunque.
Ecco che allora tutte le nazioni con maggior peso economico cercano di avere una posizione importante nella ricerca, ma in fondo nessuna di queste vuole che una delle altre raggiunga per prima la capacità di produrre un impianto in modo indipendente. Tutti giocatori, in un gioco dove cercano di raggiungere il traguardo in tempi più dilatati possibili: se tutti arrivano davvero in fondo, che vantaggio c'è ad essere pari merito?
Così, mentre la richiesta di energia cresce a velocità sempre più elevata, gli stati membri del progetto cercano di posticipare il raggiungimento di un obbiettivo comune.

Non bastassero i giochi di potere fra gli stati, all'interno di questi c'è poi chi si oppone al finanziamento di un progetto come ITER. In Europa, paradossalmente, il progetto è inviso ai Verdi, che temono un danno per i soldi sottratti agli investimenti nell'eolico e nel solare: produzione sì da fonti rinnovabili, ma i cui costi continuano ad essere ripianati da contributi continui di altri soldi, mentre si blocca qualsiasi futuro alternativo.

Lo stesso ITER non è poi il prodotto finale della ricerca, ma solo un grande e grosso laboratorio, che dovrebbe produrre conoscenza, tale da permettere, dopo un paio di generazioni di reattori di prova, di arrivare all'energia da fusione per tutti.
Il mio sconforto è che per quanto io possa essere longevo, non vedrò mai il risultato dell'energia da fusione per le masse, mentre continuiamo a dibatterci fra inquinamento ambientale ed eccessi di CO2.
Forse fra qualcosa come un centinaio d'anni, gli impianti a fusione nucleare potrebbero aver raggiunto la maturità da renderli pratici, mentre per ora continuiamo a punire la visione di un mondo migliore, finché non sarà deciso quanti soldi renderà e come spartirseli.