lunedì, luglio 31, 2006

Ci vuole coraggio

Se avete sfogliato i quotidiani, ma anche se ne avete vista la sola prima pagina, oppure avete assistito a qualche giornale televisivo, non vi sarà passato inosservato il recente conflitto in medioriente.

Ci vuole del coraggio, per scrivere l'articolo che leggo su un quotidiano italiano, scritto da una signora italiana che vive in quell'area da trent'anni.
Dopo i fatti sanguinosi, che hanno portato in Libano la più evidente distruzione nelle installazioni civili. Dopo le recenti stragi di civili, perlopiù donne e bambini, da parte di artiglieria ed aviazione israeliana.
Ci vuole del coraggio, nelle parole di quella signora, che scrive testualmente "[...] sai che da anni qualcuno sta cercando di cancellarti dalla faccia della terra".
Ci vuole del coraggio, perché questa signora non vive in Libano, ma in Israele, e delle stragi di civili libanesi non ce ne vuole parlare. Probabilmente non crede neanche che siano vere.

Mentre le televisioni americane e i giornali occidentali hanno scelto la linea soft, censurata, dove della quella si vede qualche piccolo scoppio da lontano, seguito dai politici amricani o israeliani sorridenti, le televisioni arabe hanno messo in diretta gli orrori. Con le riprese dal vivo dei soccorritori in mezzo a cadaveri mutilati e sfigurati.
In effetti questa sembra una guerra in subappalto, dove gli Stati Uniti d'America hanno preferito mandare qualcuno del luogo, anziché infognarsi come in Iraq.

Ci vorrà del coraggio, a chi sull'onda della sicura indignazione, come in passato, cercherà di bollare di antisemitismo chi rifiuta le posizioni d'Israele.
Ci vorrà del coraggio, alla signora Edna Calò Livné, autrice dell'articolo detto sopra. Perché se prima aveva l'altra metà del mondo che desiderava cancellarla dalla faccia della terra, ora se ne saranno aggiunti altri, senza contare quelli che pur non volendo la sua morte, avranno nuovo odio nei suoi confronti.

Quello che è chiaro, riguarda poi le condizioni di chi soffre per delle tensioni sociopolitiche, come quelle mediorientali.
Ci sono due grandi fette di popolazione che soffrono di un conflitto, da entrambe le parti. Soffrono gli stessi problemi, il pericolo della morte, gli attentati terroristici, esattamente nello stesso modo.
E ci sono molti gruppi di fanatici, da entrambi i lati, ciechi esattamente nello stesso modo, incapaci di pensare alla propria esistenza, se non in funzione della distruzione totale dell'avversario.
Oggi muoiono più civili Libanesi, ma se le forze in campo fossero state a favore dell'altra parte, ne morirebbero di più fra gli Israeliani. Per il resto non vedo nessuna differenza fra le due parti in conflitto.

Sarebbe da chiedere, alla signora Calò Livné, perché mai, se la popolazione del suo paese soffre le paure della guerra, non ha favorito i governanti che tendevano all'integrazione, alla pacificazione. Anziché appoggiare sempre più chi portava al conflitto, in ogni istante.
E la stessa cosa sarebbe da chiedere ai libanesi.
Penso che la risposta sia legata ad una complessità sociale considerevole, oltre che alle continue battaglie del passato.
Aldilà di quello che succede all'interno delle società in guerra, va però pesata l'influenza delle nazioni esterne. Se chi vive nello stato in guerra è portato alla vendetta, alla ritorsione, chi vive all'esterno potrebbe vedere la situazione con più freddezza.
Invece all'esterno ci sono dei soggetti politici, militari ed economici da brivido. Un Iran che ogni tanto detta proclami che ricordano quelli hitleriani, un'America che li mette in campo senza neppure dettarli, ed una Siria che solo fino a poco tempo fa teneva i suoi soldati in Libano facendo il proprio comodo.

Vedo difficile una qualsiasi riappacificazione. Nessuno la vuole all'interno, nessuno la vuole all'esterno, fra quelli che hanno peso sulla decisione.
Le due popolazioni sicuramente vorrebbero una pace, ma ormai sono troppo condizionate dagli eventi, e difficilmente riuscirebbero a pensare ad una pace in comune.
L'ipotesi più probabile è che ci sarà un continuo altalenare di situazioni più o meno violente, com'è stato anche negli ultimi quarant'anni, in quella regione.
Dovrebbe succedere qualcosa di veramente rivoluzionario per far andare le cose diversamente, e sinceramente non ho neppure fantasia sufficiente ad immaginarlo. Non basterebbe neppure se l'ONU, al contrario della sua funzione, divenisse la più grande potenza militare del pianeta, e mettesse le armate di un tiranno illuminato a decidere una pace forzata.
Perché se per una guerra bastano poche scaramucce, per una pace serve davvero molto di più. Ci vuole tanto coraggio.

domenica, luglio 30, 2006

Carità per i sofferenti

Con un commento del genere, dedicando i risultati al precedente Pontefice romano, il Ministro della Giustizia ha commentato l'approvazione dell'indulto.
O forse dovrei dire che era invero il commento del signor Clemente Mastella, già citato in un mio precedente intervento.

Com'era già previsto, già messo in atto, ci sono state larghe fasce sia di oppositori che di contrari.
L'opposizione di Governo ha sostenuto fin dall'inizio un curioso tema. Visto che nel Governo stesso ci sono forze favorevoli o contrarie al provvedimento, hanno citato una scarsa coesione dello stesso, con l'automatica incapacità di governare.
La parte curiosa era nel fatto che neppure l'opposizione stessa era coesa, le posizioni di tutti i movimenti e personaggi ad essa appartenenti, erano completamente in disaccordo. In sostanza, non era difficile interpretare il tema come "loro non sono capaci di governare, e noi non lo saremmo altrettanto". Un bizzarro autogol, ma nel paese del calcio si sa, non contano i fatti, quanto i fattarelli.

Il signor Marco Travaglio, che da tempo denunciava degli accomodamenti politici sul caso, ha ricordato che ora saranno liberi tutti i piccoli e grandi truffatori e corruttori, dalla signora Vanna Marchi e figlia, al signor Cesare Previti, continuando per una lunga sequela di furbetti (come li ha definiti un'operazione d'indagine, con un nome in codice, e come li ha presto adottati la stampa).
Il signor Adriano Sofri, che in carcere ci vive, ha subito replicato dalle pagine di un altro quotidiano che il Travaglio è cieco ai problemi carcerari, ma sensibile a quelli d'immagine: la sua, che ha nuovamente guadagnato notorietà.
Alquanto bizzarro anche questo secondo scambio di accuse, visto che le due persone parlavano di fatti diversi. Il Travaglio (fosse anche per sete di fama o denaro) ha parlato dell'impunità dei ricchi, il Sofri di sofferenze giudiziarie dei poveri.
Sarebbe curioso sapere se il signor Sofri, che scriveva il suo articolo per un giornale di sinistra, ci vuol far sapere che il servilismo verso i ricchi corruttori è la nuova corrente di sinistra. Oppure se sarebbe bastato rivedere la norma, prima della sua approvazione, per evitare aberrazioni che non distinguono i ladri da galline da quelli di capitali finanziari. Ma forse il signor Sofri ci voleva solo dire che sbagliamo, a pensare priviliegiati i grandi corruttori, come il signor Previti e il signor Ricucci. Voleva farci sapere che anche loro, per pochi giorni di carcere, hanno in realtà diviso la cella con nordafricani e rumeni. E chi non gli crederebbe?

Cosa succederà adesso? Niente di particolare.
Detto meglio, niente d'imprevedibile. Già oggi leggo di una lettera al Ministro di Giustizia, di una madre preoccupata perché l'indulto libererà il figlio violento e tossicodipendente. Prevedibile.
Appena liberati un po' dei carcerati, qualcuno tornerà a delinquere e sarà preso in breve tempo, è statistico. Qualcuno compirà qualche delitto efferato, magari tornerà ad uccidere (anche gli omicidi volontari possono vedersi alleggerita la pena), così i giornali titoleranno a grandi lettere che era stato liberato in anticipo, grazie alla norma sull'indulto.
Ci sarà un po' di maretta, accuse che voleranno, politici dietro a qualche no comment. L'opinione pubblica (che rappresenta quella massa di caproni belanti che seguono chi li pasce) insorgerà, come se l'effetto dell'oppio fosse terminato. Poi tutto tornerà alla normalità. Per essere italiani non ci serve neppure l'oppio, che è tornato a crescere rigoglioso e redditizio in Afghanistan.

sabato, luglio 29, 2006

Contattaci

Nei primi tempi di larga diffusione del world wide web, o come ormai si definisce, con la (quasi) completa perdita di padronanza dell'acronimo, il www, tutti quelli che c'erano volevano esserci. Le pagine web, visitabili con il browser Mosaic, oppure con le prime versioni di test di Netscape, erano di una forma oggi apparentemente grezza.
Chi aveva occasione, come me, di connettersi con i modem alla massima velocità dell'epoca, a poco più di 14-16 kilobit per secondo (per i fortunati), sembrava comunque lento. Inesorabilmente lento, anche se le poche pagine avevano scarsi contenuti grafici.
Non esisteva ancora l'ormai diffuso Internet Explorer di Microsoft. In effetti Microsoft rifiutava l'idea che Internet potesse prendere piede, come ho già scritto altre volte. Erano pienamente convinti di far diventare MSN l'unica rete mondiale, così come si avviavano a far diventare Microsoft Windows il sistema operativo più usato. I fatti (fortunatamente) dettero loro torto, e ne potete avere una riprova consultando il menù '?' di Internet Explorer, alla voce 'Informazioni su Internet Explorer', dove recita
Basato su NCSA Mosaic. NCSA Mosaic® è stato sviluppato dal National Center for Supercomputing Applications presso l'università dell'Illinois a Urbana-Champaign ed è distribuito in base ad un contratto di licenza della Spyglass, Inc.

perché in effetti hanno dovuto prendere in fretta e furia qualcosa di funzionante, visto che il mondo stava scoprendo Internet, la rete che per Microsoft era una bolla di sapone.
Basti sapere che Microsoft Windows 95, nelle sue versioni di test non prevedeva comunque il supporto TCP/IP (la base del supporto Internet), era necessario rivolgersi al supporto di terze parti, come Novell.
Tutto questo nonostante già dalla piattaforma Microsoft Windows 3.1 fosse possibile usare Internet.

In quei tempi primordiali tutti ci tenevano a farti conoscere il loro indirizzo e-mail di contatto.
Era una cosa nuova, le pubblicità indesiderate non avevano ancora fatto capolino nelle cassette postali elettroniche, non si poteva sottovalutare un gesto di benevolenza verso l'utente.
E gli utenti erano pochi.
Poi sono cresciuti gli utenti, le società hanno compreso che crescevano anche le lamentele, e oggi ormai la scritta "Contattaci"/"Contact us" è sempre più una rarità.
Più sono grandi le aziende, più complesso è divenuto il modo per contattarle. Alcune si sono dotate di perversi meccanismi di comunicazione, sempre più indiretti, per evitare ai propri dipendenti di perdere tempo con Internet, con le richieste inopportune. L'ottima scusa di "creare una comunità" ha indotto molte di queste a installare dei forum di discussione fra gli utenti, su cui intervenire di tanto in tanto. Così chi scrive magari trova le risposte da altri utenti, ma soprattutto si sente nella possibilità di "sfogarsi". Più realisticamente una lavagna bianca data a un pittore di murales, eccezionalmente funzionale.

I contatti veri, umani, non di risponditori automatici, si possono ancora avere per telefono. Magari su una linea a tariffazione speciale, dove un minuto di attesa (o di conversazione) costa quanto una bibita al bar.
Vi sfido ad annotare quanti siti siano divenuti veramente più ricchi di contenuti utili. Ormai lo scopo informativo tende ad azzerarsi, al confronto di quello pubblicitario.
Consultate il sito di un grande produttore, per cercare aiuto su un articolo che vi crea problemi, e siete assediati dalle pubblicità su quanto siano meravigliosi, portentosi, i nuovi ammennicoli. Ma arrivare ad un'informazione non pubblicitaria è un'impresa, dietro i filtri che vi chiedono anche il vostro certificato di nascita, vogliono sapere tutto quello che può servire al marketing. Lì dentro siete ormai un fenomeno da studiare, non persone da ascoltare.
Forse l'espressione "Contattaci" potrebbe essere sostituita con "Dicci chi sei, non cosa vuoi: quello te lo diremo noi".

venerdì, luglio 28, 2006

Privilegi incerti

Leggendo le cronache dei giornali, viene di rubare una frase di Marcello Marchesi: l'Italia è un paese dove le ingiustizie sono mitigate dai privilegi.
Dopo le proteste sulle liberalizzazioni da parte dei tassisti, ora tocca infatti ai farmacisti.

Leggendo dei weblog qua e là, infarciti di inni alla riforma e d'imprecazioni, mi ha colpito un'osservazione che avevo fatto pur io, sebbene non verbalmente ad alcuno. Il fatto che le liberalizzazioni siano solitamente viste come una spinta della borghesia, nel desiderio di rimuovere dal controllo statale certe fette di mercato.
In poche parole, scegliere di liberalizzare i mercati è immaginata come una tendenza capitalistica. Come mai non sono state promosse dal precedente Governo di centro-destra, ma da uno di centro-sinistra?
Non doveva essere il precedente esecutivo a denunciare che troppo statalismo rischiava di far rima con stalinismo?
Ovviamente la risposta c'è, ed è politica, ma non della politica che si fissa sulle posizioni di destra o di sinistra. Quando ci sono interessi economici in gioco, grossi interessi, non ci si formalizza su queste divisioni, create ad arte per il popolo. In fondo il sapere dove stanno la destra e la sinistra ci è di conforto per sapere da che parte preferiamo portare l'orologio, ma su cose più grosse la situazione si complica.

I farmacisti ci dicono che vogliono un riconoscimento alla loro professionalità. Benissimo, che ci sia quindi il riconoscimento: chi vorrà sentirsi in un ambiente professionale, nella scelta di un farmaco, continuerà ad andare in farmacia, anziché al supermercato.
Prevedono che le grandi compagnie del farmaco faranno affari d'oro, svendendo i prodotti, alle loro spalle. Ma il grosso business del farmaco sta veramente nell'aspirina? I milioni di pillole a basso costo sono davvero la fonte del loro reddito?
Se la risposta è sì, evidentemente il loro lavoro sembra essere quello di un bravo commerciante, non di una figura medica professionale.
Eppure mi viene facile credere che ci sia anche un notevole guadagno nei farmaci su prescrizione medica, dove anche per una banale faringite si scopre che c'è un prodotto miracoloso. Prescritto dal medico di famiglia, per buona parte magari pagato dal Servizio Sanitario Nazionale. Un prodotto, che anche nel caso di qualche antibiotico, può avere un costo di 40-50 Euro o più. E questi farmaci non finiranno certo nei supermercati.
Quello che poi non ci dicono è molto più subdolo. Come il rischio di perdere la discendendenza ereditaria che regola il passaggio dell'attività. Un po' come nascere figli di re, con il trono assicurato: allo stesso modo vale la legge per le farmacie. I figli infatti non necessitano di laurea, per tenere aperto l'esercizio.

Nel frattempo, forte del suo potere, l'orda dei barbari tassisti brucia tutte le tappe.
Ormai sanno di poter esercitare prepotenza ed arroganza ovunque, nessuno li ferma, neppure se prendono a pugni un passante che strappa i loro manifesti di minacce, mandandolo all'ospedale.
Le avanguardie per un nuovo fascismo ci sono tutte. Abbiamo le squadracce dei tassisti, l'economia dei farmacisti, e presto immagino anche la manipolazione di avvocati e notai, il cerchio si chiude. Ecco dipinta l'Italia a partire da chi la comanda veramente, dalle persone che hanno il vero peso sui politici.
E dire che fino a poco tempo fa vi avevano raccontato che sarebbero state le barbarie degli avversari alla globalizzazione a comandare il Paese.

mercoledì, luglio 26, 2006

Niente ferie, tutto lavoro

Un paio di giorni fa leggevo su un quotidiano, nella sezione finanziaria, dei controlli fatti dal Ministero delle Finanze sugli introiti fiscali.
Che sia stato un eccesso di zelo, o un bisogno disperato di recuperare denaro, il risultato è stato esemplare. Solo gl'ingenui possono pensare che il debito statale sia irrisorio o facilmente azzerabile, ma serve sicuramente un'estrema pervicacia per raggiungere simili risultati nei controlli.

Su oltre trentottomila (38000) controlli delle tasse pagate dalle aziende, principalmente in un paio di province (se non ricordo male Treviso e Vicenza), è risultata un'evasione fiscale del novantasei virgola tre per cento (96,3%).
Che sia l'evasione fiscale, il vero business del ricco nord-est industrializzato?
Immagino che il dato vada visto in maniera più oggettiva. Non come legato al nord-est del Paese, ma alla sua interezza.
Vedo più probabili dei numeri simili in tutta Italia, indipendenti dalla posizione geografica. Credo che però non si ripeteranno più nei controlli: sarebbe davvero troppo se tutti finissero per pagare le tasse sul serio. Chi eleggerebbe mai più un Governo del genere in Italia?
Le cifre le sapevamo da sempre, fingevamo beatamente che non fossero vere, ma da lì a denunciarle il passo era veramente sproporzionato, per l'italiano medio.

Se la percentuale media di denaro recuperato, da queste truffe verso l'erario, è solitamente dell'uno per cento (1%), perché mai avventurarsi in simili controlli a tappeto?
Evidentemente c'è la speranza di ottenere di più. Anche se è evidente: con un'evasione fiscale così ampia, radicata, rimane insperabile controllare singolarmente le migliaia d'imprenditori truffaldini in ogni regione.
E' un po' la regola degli assalti al castello: maggiore è la quantità degli assaltatori, minore è la probabilità di finire sotto la pece bollente, che tanto colpirà soprattutto i primi.
Qualcuno verrà preso, messo in croce davanti ai mass media, negherà l'evidenza, pagherà. Ma saranno pochi, pochissimi. Giusto quelli che sono rimasti senza un appoggio politico.

C'è da immaginare poi che i controlli siano finiti male per i cosiddetti studi di settore, che cercano d'immaginare quanto guadagnerebbe in media un elettricista o un idraulico. Immaginate quanto siano affidabili, in settori dove l'evasione è tangibile fin quasi al cento per cento. Oppure nei settori ormai di fiducia degli investitori finanziari, come quello immobiliare.

Da parte mia sono già alcuni anni che ricevo comunicazioni dal Ministero delle Finanze, ogni volta per segnalarmi che la mia denuncia IRPEF è "del tutto in regola". Visto che a me sembra naturale, normale, il dubbio è che io sia (come percepisco) nella posizione più disgraziata della mia categoria economica: guadagno esattamente quanto dichiarato da chi evade le tasse.

Il mio pensiero torna al mito del nord-est industrializzato, ricco e lavoratore. Ho lavorato anche parecchie volte per aziende della zona, ricche di personale altamente qualificato, che lavora più ore di un muratore, ma che viene pagato di meno. Lo spazio delle ferie impiegato per il lavoro, all'americana, magari senza essere retribuito.
Quei soldi, al netto delle tasse, devono rendere veramente bene, comunque li si investa. Soprattutto se le tasse non si pagano.

In sicurezza stradale

Trovo un fatto comune, quando su un automobile si deve salire in più di due persone, che qualcuno si offra sempre di salire dietro, "così non devo mettere la cintura di sicurezza".
Se la frase aveva un suo perché nei tempi passati, quando le prime auto a dotarsi di cinture di sicurezza le avevano solo sui sedili anteriori, adesso le cose sono cambiate.
Visto che ormai tutte le nuove auto ne hanno anche per i sedili posteriori, l'articolo 173 del Codice della Strada non lascia dubbi:
1. Il conducente ed i passeggeri dei veicoli delle categorie M1, N1, N2 ed N3, di cui all'articolo 47, comma 2, muniti di cintura di sicurezza, hanno l'obbligo di utilizzarle in qualsiasi situazione di marcia.

Quindi non vige esclusione per i passeggeri sui sedili posteriori. In caso di contravvenzione sono multabili al pari dei passeggeri sui sedili anteriori. Anche perché in caso d'incidente subiscono rischi analoghi ai passeggeri anteriori.
La rivista Quattroruote lo segnala come uno degli articoli sulla sicurezza più trascurati dagli automobilisti.
E voi le allacciate anche sui sedili posteriori?

C'è da dire che spesso si creano dei falsi miti, anche in ciò che viene regolamentato rigidamente.
Nel caso delle cinture di sicurezza è stata probabilmente una complicità del modificarsi della legge, prima più permissiva (fino al 1993).
Ci sono però anche casi del tutto privi di fondamento, a generare leggende metropolitane.
Un caso di cui ho sentito il racconto riguardava le norme di sorpasso. Un conducente d'automobile era totalmente convinto che in autostrada, se qualcuno intralcia la corsia di sorpasso, gli fosse consentito il sorpasso a destra, visto che chi intralcia commette un'infrazione. Dimenticando che in ogni caso il sorpasso a destra rimane un'altra infrazione, di tipo diverso -- tranne i casi specifici all'articolo 148 del Codice.

Ricordo poi un altro caso vissuto in prima persona, che mi generò un dubbio, anche se sul momento non lo esternai.
Mi trovavo a circolare di notte, sulla strada che attraversava vari paesini, e avendo una delle luci anabbaglianti fulminate, pensai bene di usare perlomeno i fendinebbia, sia per vedere meglio che per essere visto meglio.
Era una calda sera d'estate, e in uno dei paesini attraversati c'era qualche manifestazione notturna che rallentava il traffico, al che la Polizia Municipale controllava gli attraversamenti pedonali. Fermandomi ad uno di questi, l'ufficiale che aspettava stancamente il passaggio dei molti pedoni, mi si avvicinò e mi fece osservare che avevo i fendinebbia accesi. Spiegai il mio scopo, ma il suo commento fu "Non può accenderli, sono un fastidio, c'è scritto anche nel Codice della Strada".
Visto che al momento non mi contestava niente di più, e anzi mi stava già incoraggiando a ripartire, non pensai certo di contraddirlo.
Il punto è che però, nell'articolo 153 del Codice, l'unico dove si regolamenta l'uso dei fendinebbia, si cita quando si possono usare, ma non esiste alcun divieto esplicito ad usarli in altri casi.
Senza contare, che se proprio dovesse essere impossibile, per legge, usarli in contemporanea ai fari anabbaglianti, evidentemente le auto che lo permettono (tutte) non dovrebbero neppure essere immatricolabili in Italia.
A dimostrazione che incorrono nelle leggende anche gli addetti ai lavori.

lunedì, luglio 24, 2006

Terrore della diversità

Mi viene da pensare che sia nella socialità umana, dove si creano i primi terrori delle diversità.
La creazione del gruppo, della società (intesa come singolo nucleo), impone che si mettano in comune delle caratteristiche. Chi non ha quelle caratteristiche diventa istantaneamente esterno al gruppo.
Esterno, in quel caso, implica diverso. Ed essere diverso dal gruppo può generare il terrore che si attenti all'integrità del gruppo stesso.

Il gruppo citato sopra, aldilà di quello tribale di origine, ha assunto nel tempo un polimorfismo ragguardevole. Anzitutto i suoi confini sono variabili, anche perché un gruppo può contenere altri gruppi più piccoli, per non parlare delle intersezioni -- se ricordate un minimo della teoria degli insiemi, imparata nella scuola elementare.

I gruppi, sono come aspetto più esteriore, le classificazioni che diamo ogni giorno, spesso costruite con asserzione di appartenenza e di non appartenenza, ad esempio italiani e non-italiani.
Un altro metodo è la creazione di gruppi per i quali l'appartenenza è "facilmente" esclusiva, come donne e uomini, bianchi e neri, e così via.
L'evoluzione, i tempi che comunque cambiavano, hanno poi spesso dimostrato che tanti di questi gruppi non erano così rigidi, come ce l'immaginavamo. Con i nuovi terrori sull'integrità e la stabilità di questi gruppi -- e quando se ne fa parte può diventare un vero terrore.
Si è creato da sempre un sospetto quindi, versi gli individui a cavallo di due o più gruppi, fra quelli che si è sempre cercato di consolidare. L'omosessualità o la bisessualità, la colorazione della pelle che non ci sembra decisa, forniscono un esempio pratico ed evidente.
Ma ci sono anche tante altre situazioni meno comuni. Ricordo ad esempio un caso, di una persona di origini nobili, che mi raccontava del suo disappunto nei confronti della ricca borghesia, perché in fondo non erano del tutto plebei, ma ostentavano anche modi falsamente aristocratici: una pericolosa mistura, a suo parere.
Le preoccupazioni sulla diversità sono ovviamente legate anche alla cultura di base, in paesi diversi possono essere valutati dei criteri di separazione diversi.

Lo stimolo a questa riflessione mi è venuto dalla recensione in breve di un libro, di una neuropsichiatra che affronta la diversità del cervello femminile rispetto a quello maschile.
La separazione dei gruppi uomini/donne è un argomento particolarmente scottante dal secolo scorso. Se da un lato la separazione dei gruppi era assodata in passato, con ruoli ben definiti, c'è stato un tentativo costante di riunificazione sotto la giusta pressione delle pari opportunità. Come non bastasse è nato il sentimento per una nuova divisione dei gruppi, ma con regole diverse, nel periodo della rivoluzione sessuale e l'affermazione del femminismo.
Così adesso le regole sono due: la prima è che tutti debbano essere uguali, anche in ciò che li diversifica. La seconda è che ciò che ci diversifica non è quello che potete pensare, ma una cosa del tutto diversa. Per estensione, la seconda regola ha un corollario, per cui se proprio lo volete sapere, l'altro sesso è diverso dal vostro perché migliore.
Non ha poi importanza se siete di sesso maschile o femminile: le due regole sopra sono costruite in modo che siano sempre applicabili.

La signora Louann Brizendine, autrice del libro suddetto, ha molte idee sulle diversità. Idee legate a fenomeni fisiologici, che immagino sia difficile controbattere.
Forse proprio perché difficili da argomentare, generano una nuova inquietudine.
Insomma, hanno impiegato decine d'anni per rendere tutti uguali, e lei arriva a dirci che non lo siamo. Com'è fortunatamente vero.
E' una fortuna non esserlo infatti, visto davvero come un fenomeno positivo, di arricchimento.
Il guaio, è per certe culture rigide, lente nei cambiamenti, come quella americana, a cui la signora Brizendine appartiene. Non che ce ne siano molte di flessibili (non me ne sovviene alcuna degna di nota), ma ci sono eccessi facili da riconoscere.

Il polverone che ha sollevato vale per due visioni differenti dei gruppi maschili/femminili. Quelli che vedono l'altro gruppo come inferiore, e nel caso specifico le donne come inferiori, trovano di che arrabbiarsi di fronte a un libro che narra di ricchezza nelle diversità al femminile. Quelle che avevano cercato in ogni modo di uniformarsi, di apparire più uguali possibili agli uomini, si vedono nuovamente dipinte come diverse.
Sono convinto che ben pochi siano convinti come me che la cosa sia da prendersi come semplice fatto scientifico. Se la ricerca è ben fatta, con il giusto metodo, conferma che oltre alla conformazione fisica esteriore diversa, o comunque quella più facilmente visibile, abbiamo anche diversità neurologiche. Bene: è anche utilissimo da sapersi per risolvere i problemi di salute. E dov'è il problema?

Il problema è ben altro. E' il solito problema di discriminazione nelle attitudini.
Vogliamo, esigiamo, una regola che ci dica chiaramente chi può fare cosa. Sentiamo questa necessità di creare caste, doveri, limitazioni, che garantiscano dei gruppi forti. Se fiutiamo la minima differenza vince il terrore: fuori dal gruppo chi non vi appartiene.
Vorrei inoltre sottolineare che questa mentalità del gruppo, come protezione, non è esclusivamente negativa, come allo stesso tempo non è esclusiva di una sola tipologia di gruppi.
Si creano allo stesso modo anche i gruppi degli esclusi, che finiscono per ripetersi nel comportamento dei gruppi che li hanno esclusi. Gli esempi sono nei gruppi di persone di colore, escluse dai gruppi dei bianchi, che hanno quindi creato insiemi in cui non sono accettati i bianchi, esattamente come capitava a loro. Oppure nelle rivolte al maschilismo, con la creazione di un femminismo equivalente.

Il problema reale, come me lo figuro io, è l'accettazione della diversità e la sua libertà.
Questo non si risolve con un'associazione d'individui del gruppo X contro quelli Y e Z che vogliono privarli della libertà di esistere. Questo è uno di quei casi in cui tutti devono essere consapevoli della libertà di esistere, di questo gruppo X. La libertà deve essere concessa anche a chi è diverso da noi. E questo, con tutta la nostra buona volontà, nonostante tutte le nostre buone qualità, non sappiamo ancora farlo.

Spiegare la Giustizia

Se nella precedente Legislatura erano commisti, nella maggioranza di Governo, numerosi personaggi con sentenze penali in giudicato (e quindi a tutti gli effetti legali dei delinquenti), nella presente si è cambiato qualcosa.
Ora, infatti, il signor Cesare Previti, per citarne uno, è stato costretto a dimettersi dall'incarico. Vive in detenzione domiciliaria, con tanto di permesso per uscire di casa, scortato dalle guardie, s'intende. Con una certa età, e come ho già osservato altre volte, che chiedere di più dalla vita?
Dopo che ha spadroneggiato con arroganza, corrompendo magistrati, per raggiungere fini economici propri e dei propri clienti.

Ecco cosa chiedere: la sospensione della pena.
E' cambiato decisamente qualcosa, ora infatti non ha più bisogno di essere nel Governo, per manovrare le leggi, c'è comunque chi lo farà per lui.

Chi è il signor Clemente Mastella? Che copra la carica istituzionale di attuale Ministro della Giustizia è un dato di fatto. Aldilà di questo però, chi è il personaggio?
E' nella maggioranza di Governo come "appoggio esterno". In che cosa si traduca è evidente: la garanzia che il cambio di maggioranza non porti eccessivi disagi a chi ha ceduto il passo.
Il personaggio che rappresenta è un vero monito. Sta a significare infatti che non c'è stata nessuna svolta epocale. Che il suo saltellare da destra a sinistra sarà una continua garanzia, perché qualcuno possa sempre svicolare dalle maglie della Giustizia. Lui si accontenta di essere sempre al potere, in qualche modo, ricambiando una parte o l'altra.
E' il vero politico, abile maneggiatore, sempre con le mani nella peggiore melma, da cui le tira fuori pulite come quelle di un chirurgo, in apparenza.

Sarebbe anche curioso sapere chi sia quell'uno virgola quattro per cento d'italiani che l'ha messo lì dov'è. Sì, perché grazie ad una percentuale così esigua di voti, in questa approssimazione incerta della democrazia, ha ottenuto un ruolo chiave.
Un ruolo che permetterà a breve, molto probabilmente, di liberalizzare i reati di concussione, corruzione, abuso d'ufficio, e chi più ne ha più ne metta.
Questa è di sicuro una liberalizzazione contro cui scenderà ben poca gente in piazza, complice anche la calura estiva e la transumanza degl'italiani al mare.

E' da solo, che deve sostenere il suo delicato incarico, il signore detto sopra?
No, decisamente no. Non è il solo politico capace nel rimestare nel torbido, per garantire solidità a se stesso e a chi appoggia. Cito ad esempio una frase, già citata anche nel weblog di Marco Travaglio di oggi
"Se non lasciamo nel testo la possibilità di far beneficiare dell'indulto anche Cesare Previti, Forza Italia non voterà con noi questo provvedimento. E vorrei ricordare a tutti che il quorum per farlo passare è di due terzi".
(Pierluigi Mantini, capogruppo dell'Ulivo in commissione Giustizia, Ansa, 20 luglio 2006).

Insomma, gli affari sporchi sono un fenomeno del tutto trasversale.
Vorrei soltanto che qualcuno ci spiegasse la Giustizia, di tanto in tanto, per ricordarci cos'è, come funziona, e perché è tanto scomodo applicarla in questo Paese.

martedì, luglio 18, 2006

Terrorismi possibili

C'è stato l'accordo fra il Governo e le associazioni dei tassisti, così leggo dai quotidiani.
Con una chiara dimostrazione: che loro sono autorizzati a fare del terrorismo un modo per essere ascoltati.
Non vedo un'altra spiegazione, dopo le minacce di violenza che hanno portato sia a personaggi politici, che ai giornalisti -- un giornalista del Corriere della Sera è stato minacciato anche sul profilo privato, con riferimenti assai espliciti ("Sappiamo chi sei e dove vivi").

E pensare che la precedente legislatura si era adombrata per un singolo contestatore, che aveva lanciato un oggetto contundente verso il Presidente del Consiglio (seppure non per la sua funzione istituzionale). Adesso, da coalizione d'opposizione, marcia invece felicemente sul punto che essere dei selvaggi violenti è una cosa giusta.

Insomma, questa è una forma di terrorismo possibile e che dà buoni frutti.
Se prima avevo un'opinione di profondo sconforto, per il servizio taxi in Italia, posso affermare con certezza che adesso, aldilà delle mie previsioni, è molto peggiorata.

Desidero poi sottolineare che a ben pensarci, non riesco a ricordare alcuna contestazione violenta, di qualsiasi classe lavorativa, che sia stata accolta così rapidamente.
Mi vengono alla mente due casi: il primo, che si abbiano dei concertatori molto abili al Governo, il secondo, che ci sia chi detta legge ben aldisopra. E non me ne vogliano i governanti, se non li reputo eccezionali.

Priorità postali

Non è difficile capire cosa si celi dietro la semplificazione dell'affrancatura postale, con l'introduzione della sola posta prioritaria.
Ovviamente è semplificato il meccanismo di gestione della posta, unificandolo. Ed appare altrettanto ovvio che quei venti centesimi in più, per una lettera, siano un'abile mascheratura per aumentare il costo del servizio.
Del resto ci si potrebbe felicitare di avere comunque solo il servizio più efficiente: oppure no?

Fino ad alcuni mesi fa ricevevo posta regolare, con degli avvisi di scadenze, che mi arrivavano da un vicino capoluogo di provincia. Visto che il mio studio si trova in una zona commercialmente e industrialmente attiva, si può pensare che comunque il tragitto fosse rapido, in quegli otto o nove chilometri, fra me e chi mi spediva le lettere (direttamente dall'ufficio postale centrale della provincia).
Il tempo di percorrenza medio si attestava sui sette giorni. Sì, poco più di un chilometro al giorno, meno di quanto sia necessario per una passeggiata salutare.
Registravo solitamente tempi dimezzati per la corrispondenza con altre nazioni europee, rispetto a quella che arrivava da soli otto chilometri.
Tanto che ad un certo punto ho segnalato l'inutilità delle lettere, a chi mi spediva gli avvisi di scadenze: mi arrivavano regolarmente quando la scadenza era trascorsa.

L'esordio della posta prioritaria fu accompagnato dal solito sensazionalismo della novità.
Era possibile ricevere posta in una sola giornata, in un'altissima percentuale di casi, o così dicevano. Sperimentai subito il servizio con chi intrattenevo corrispondenza privata, ottenendo risultati mediocri, ma abbastanza vicini alle affermazioni pubblicitarie.

Per la posta professionale mi avvalgo talvolta anche del servizio di posta celere, vista la necessità di avere più garanzie sul tempo rapido e sulla tracciabilità.
Anche in questo caso però la "soddisfazione del servizio" trovo che sia modesta. L'ufficio postale che ho più vicino mi richiede di consegnar loro i plichi di posta celere entro la mattinata, nonostante il loro orario di apertura sia fino a sera. Per cui alle 24 ore di transito si aggiunge una giornata intera. Se mi azzardo a passare dopo l'una del pomeriggio sono capaci di non accettare la spedizione chiedendomi, molto infastiditi, di ripassare la mattina dopo. In fondo sono io, a far loro una cortesia, si sa.

Il tempo, degli utenti dei servizi postali, è decisamente fuori da qualsiasi priorità.
Anni fa, molti uffici postali cominciarono a realizzare gli impianti per la numerazione di priorità allo sportello, con segnalazione luminosa del numero servito. Qualche ufficio era riuscito anche a completare l'opera: prima dello stop ricevuto dalla direzione centrale.
In un'intervista televisiva, al cui ascolto rimasi assai perplesso, uno dei responsabili della riorganizzazione degli uffici postali disse "E' molto meglio secondo la filosofia che abbiamo impostato non aspettare che aspettare bene".
Devo dire che nell'ufficio postale dove mi reco più spesso, la coda informe che esce fino fuori dalla porta principale, genera molti dubbi. Senza contare i frequenti alterchi, che qualche volta sono addirittura degenerati in vere risse, sedate con l'espulsione forzata dei litiganti.

E' del resto vero che di concorrenza non ne hanno, per cui la qualità del servizio può restare mediocre: fino a che non diventa davvero insopportabile. Del resto si sa come vanno le cose fatte all'italiana, abbiamo acquisito il torpore necessario a subirle.
Finché non ci sono obblighi diversi, la priorità è fare cassa.

lunedì, luglio 17, 2006

Limiti all'ebbrezza

Leggendo una notizia d'agenzia, di pochi minuti fa, ho avuto lo spunto di riflessione su degli annosi problemi.
La giovane figlia di una signora molto nota, nel mondo dello spettacolo, ha avuto un serio incidente, cercando di fare un tuffo in mare di notte, finendo invece sugli scogli. Collegato al triste accaduto, che ha creato un grave trauma alla ragazza, leggo il fatto che sia stato multato il gestore di un bar, reo di aver venduto alcolici alla minorenne.

Il primo dato di fatto è che i limiti, posti dalla legge all'abuso di alcune sostanze, come gli alcolici o gli stupefacenti, sono spesso facilmente valicati.
Sfido chiunque a presentare un giovane visibilmente minorenne, in un bar o una tabaccheria, per riprovare il contrario. Non gli sarà mai negata una bottiglia di birra, e sospetto lo stesso per un pacchetto di sigarette.
Nessun limite ovviamente per chi è maggiorenne, anche se visibilmente ebbro: finché non infastidisce gli si versa tutto quel che paga.
Qualche limite è stato tentato per altre sostanze tossiche, generatrici di dipendenza al pari della nicotina, ma di effetto più forte.
Non è da sottovalutare il deciso cambiamento di mercato degli stupefacenti, che vedono un calo di narcotici come l'eroina, in favore di stimolanti come la cocaina. Dallo stato del tossicodipendente considerato ai margini della società, si è passati alla tossicodipendenza come accettazione nella società: il consumatore di cocaina è stimolato sul lavoro, si sente vivace con gli altri.

Il breve elenco fatto sopra non pretende di mettere tutti quei fenomeni allo stesso livello, quanto di marcarne l'escalation, il percorso incrementale.

Chi dovrebbe o potrebbe mettere dei limiti? E anche: perché dovrebbe farlo?
Trovo che la risposta sia molto più complessa di quanto il senso comune ci porti a pensare. La prima avversione che abbiamo per questi fenomeni di dipendenza, e di degrado della persona, è solitamente un insieme di dettami culturali. Questo ci porta a sopravvalutare o sottovalutare facilmente molti aspetti.
Anche sulle modalità di limitazione, si hanno esempi dal passato che riteniamo spesso validi, mentre magari è necessario ripensarli al tempo presente.

E' evidente che serva anzitutto una protezione verso chi è molto giovane, e quindi può rischiare maggiormente la salute, sia in visione della sua crescita fisica che psicologica.
L'ostacolo maggiore non sembra però essere il buonsenso dei molto giovani, quanto la mancanza di indicazioni educative dagli adulti. Serve un tipo di messaggio che sia assimilabile, sulla pericolosità di ciò che si va a fare. Un messaggio che chiaramente non viene passato, dalla famiglia da un lato, così come dal venditore del prodotto, dall'altro.
Investire di una responsabilità educativa il commerciante, dietro al bancone del bar o della tabaccheria, trova la resistenza della mentalità del profitto. Una bottiglia di birra venduta in meno equivale a una perdita; vendendola si crea inoltre un nuovo potenziale cliente.
La responsabilità morale non riesce sempre a superare questo pensiero, come non supera il pensiero di non pericolosità del gesto ("in fondo è solo una birra").
Questo secondo aspetto è esso stesso fuorviante. Se da una parte la pericolosità di una singola bottiglia di birra, poco alcolica, può essere effettivamente limitata, non si ha però garanzia che non sia la prima di una decina, o una dozzina. In questo caso dovrebbe aver supplito una precedente educazione familiare, aver dato un senso del limite per i propri eccessi.

La difficoltà prima, nell'educazione familiare, pare che sia quella della giusta misura, ovvero nel saper trovare una via di mezzo fra la rigidità (spesso tipica di ambienti più antichi) e il completo lassismo (più comune negli ambienti moderni).
Il mio pensiero è che ci sia una matrice comune all'educazione molto rigida e a quella molto permissiva: entrambe evitano di valorizzare l'individuo in oggetto. Non viene cioè educato al valore della persona.
Nel caso di eccesso di rigidità viene anteposto un valore morale, familiare o della società, come prioritario. Screditando in questo modo qualsiasi spinta della giovane o del giovane, ad affermarsi. Si costruisce l'immagine del mondo con pochi e indiscutibili valori superiori.
Quando invece la permissività decade nell'abbandono, le linee guida sono di per sé mancanti di ogni valore dato per importante. A niente viene dato un valore, men che meno a colei o colui che viene educato, in una visione che rende tutto il mondo paritetico, ma in quanto tutto al livello minimo.

L'alternanza e l'abbondanza di questi due modelli, con i loro eccessi, rende difficile chiarire quali sono i limiti e perché ci siano dei limiti.
Mimando queste due situazioni, la maggior parte della gente si allinea sulla posizione di forte chiusura (proibizionismo) o di eccessiva tolleranza (antiproibizionismo, se la parola potesse rendere l'immagine).

Riportando tutto sul piano pratico, sul rischio incrementale per la salute, quali limiti e soluzioni si dovrebbero porre?
E' difficile dire anche questo. Certamente, l'avere strumenti giuridici che vengono nei fatti scavalcati del senso comune, è disastroso (e c'includo l'inapplicato divieto di vendita di alcool e tabacchi ai minorenni). D'altra parte non è inasprendo questi meccanismi che si garantisce comprensione.
Il fenomeno più grave, in proposito alle tossicodipendenze più rilevanti, è poi a seguire: se non si risolvono in modo progressivo, impercettibile oserei dire, le cause delle dipendenze più semplici, non vedo grandi trovate.
Va lasciata sicuramente una libertà di scelta a chi è dotato degli strumenti per farlo. Questo significa che ad un minorenne, per cui l'alcool può essere anche un pericolo fisiologico al suo processo di crescita, va posto un limite. E' un discorso con implicazioni notevoli, perché neppure un adulto potrebbe invece riuscire a liberarsi dalla dipendenza della nicotina, vista la comprovata azione a livello fisiologico.

Ma in fondo, queste sono solo parole leggere. Suppongo che il mondo andrà avanti ancora a lungo, con la mazza di ferro e il guanto di velluto, senza curarsene.
Chissà.

venerdì, luglio 14, 2006

Moltiplicazioni miracolose o pericolose?

Probabilmente non sono molto attento, forse sono impreparato sull'argomento, ma ancora mi sfugge il motivo della rivolta dei tassisti verso le nuove norme. Dicendolo meglio: mi sfugge il motivo che possono raccontare in pubblico. In privato immagino che si raccontino la verità, che la liberalizzazione potrebbe portare alla fine dei loro privilegi.
Dopo la prima protesta, i quotidiani si sono subito prodigati a cercare un esempio catastrofico. Hanno scavato per trovare il singolo tassista povero, che fa turni lunghissimi, per pochi soldi. E qualcuno, a ben vedere, è possibile trovarlo. Altra cosa è dimostrare che quella sia la condizione comune, o che la concessione di doppie licenze (peraltro a chi ha già una licenza adesso) sia deleteria.

Quale motivo ufficiale può essere negativo, nel dare la possibilità di raddoppiare i taxi?
Forse vedo la cosa dalla prospettiva degli utenti, che osservo spesso mestamente nell'attesa, in lunghe code. Mi ricordano vagamente le lunghe code per il riso o il pane, nei paesi in guerra.
Sarei curioso di sentire qualcuno che pone la domanda, in pubblico, alle associazioni di categoria: "Perché siete contrari ad aumentare il servizio ai cittadini?"

Da quanto leggo poi, la licenza è appunto moltiplicabile per due (ovvero permettendo a chi ne ha già una, di regolamentare una seconda vettura); se i tassisti sono così avversi, semplicemente non si avvarranno del beneficio, evidentemente opzionale: di chi hanno paura?
Il mio sospetto è che la vera paura, il pericolo, lo vedano chiaramente nella libertà di decidere. Le corporazioni, ormai medievali, che li controllano, hanno il dichiarato terrore di uno Stato che tolga loro i privilegi e l'arroganza. E non mi sorprenderei se la violenza con cui si stanno scatenando degenerasse ancora.

Fornisco la mia opinione col beneficio d'inventario: se qualcuno mi offre una motivazione seria, diversa da quella dei conducenti che si fermano per strada e minacciano fisicamente e verbalmente, allora posso ripensarla diversamente.
Finora ci vedo solo un branco selvaggio.

martedì, luglio 11, 2006

Un rompicoglioni

Qualche tempo fa il signor Claudio Scajola, mentre ricopriva l'incarico di Ministro dell'Interno, commentò l'assassinio di un collaboratore del Governo, dicendo che nel richiedere una scorta, in quanto minacciato di morte, era "un rompicoglioni".
La parte assurda è che quel commento non era avvenuto prima della morte del professor Biagi, ma proprio dopo.
Questo mi pare emblematico, non è difficile capire cosa ci si potesse aspettare da un individuo del genere, vista la sua offensiva risposta ad un atto che richiedeva i suoi servigi in quanto ministro di questa nazione.
Fu necessaria una sollevazione popolare contro quelle parole, affinché si dimettesse: sintomo ulteriore della completa inettitudine verso un ruolo di serietà istituzionale.

Le cose non finirono lì, fu infatti successivamente reinserito in cariche governative, addirittura nuovamente in carica come ministro.
Le acque si erano calmate, il fango si era nuovamente depositato e poteva tornare a presentarsi come una persona pulita. Gl'italiani hanno memoria corta, l'unica cosa a lungo termine che ricordano è la precedene vittoria ai campionati mondiali di giuoco del calcio.

Adesso che quel signore non fa più parte dello schieramento al governo, ha ottenuto nuovamente una carica statale. Quella di presidente della Commissione Parlamentare di Controllo, ovvero diretto controllore dei servizi segreti.
Notevole conquista, per qualcuno che non aveva neppure saputo svolgere un compito da questore, come assegnare una scorta ad una persona in pericolo di vita -- per non parlare della seguente offesa alla vittima, che suonava un po' come dire 'era un rompicoglioni, bene che l'abbiano ammazzato' (e bisogna essere molto ottimisti, per interpretarla solo così).
Da notare inoltre che è stato promosso all'incarico sia dall'opposizione che dalla maggioranza di Governo.
Speriamo che non liberino mai dalle prigioni del Belgio il pedofilo assassino Marc Dutroux, o potremmo avere i movimenti politici italiani che se lo contendono come Ministro per la Famiglia, o alla peggio per le Pari Opportunità.

venerdì, luglio 07, 2006

Tax Driver

Veloce come non mai, la conferma alle mie ipotesi recenti sulle liberalizzazioni, è arrivata come attesa.
Ho tre storielle sul tema, ancora da raccontare.

Qualche mese fa lessi un articoletto su il Venerdì (il settimanale abbinato al quotidiano La Repubblica) sul sindaco di un paese del centro Europa (forse di Praga?), che aveva preso a camuffarsi. Si truccava con barba e baffi finti, parrucca e abiti stravaganti, fingendosi un turista straniero.
A quel punto cominciava a farsi scarrozzare per le strade della sua città dai taxi, per capire se era vero che le tariffe verso gli stranieri erano spesso vere e proprie truffe. E scoprì che era tristemente vero, in qualche caso moltiplicate addirittura per quattro volte.
Mise in campo controlli, irrigidì le leggi, riuscendo a ridurre il problema, e tornando di tanto in tanto a camuffarsi da rockstar o da artista italiano, per verificare le migliorie.

L'articoletto mi fece ricordare che dei controlli erano stati fatti in modo formale anche a Firenze, di cui ne avevo letto gli esiti sui quotidiani, uno o due anni fa.
La situazione non era sconfortante, come con le tariffe del caso centroeuropeo, ma certamente non allegra. Un autista su tre abusava infatti del tassametro, facendo figurare cifre diverse, rubando sul cambio delle monete straniere, e anche dimenticando delle convenzioni verso certe categorie (per esempio le donne sole che viaggiano in taxi di notte, a cui spetta uno sconto sostanziale).
I controlli non andarono avanti troppo, infatti erano troppo complessi. Ogni volta doveva essere seguito un taxi dalla partenza alla destinazione, non facendosi scorgere, per poi aspettare la discesa del passeggero e confrontare quanto pagato con il tassametro di riscontro.
Come dire: il 30% degli autisti di taxi era disonesto, ma è troppo complicato multarli tutti. Fine della storia.

Nel '97 feci un viaggio negli Stati Uniti d'America, andando a trovare parecchi amici che vivono là. Anche fra le persone che andai a trovare c'erano degli appassionati viaggiatori, che quando non potevano girare per il resto del mondo, cercavano comunque di farlo nel proprio paese.
Una coppia di amici, in volo dalla costa orientale a quella occidentale degli USA, fece uno scalo a Chicago, dove per varie vicissitudini avrebbero dovuto sorbirsi parecchie ore di attesa per la coincidenza. Decisero allora di prendere un taxi e fare un giro per Chicago, visto che seppure americani, non l'avevano mai visitata.
I taxi americani sono qualcosa di totalmente diverso dalla concezione italiana di "auto che si noleggia col conducente". Anzitutto colpisce la gran quantità che se ne trova per le strade di una grande città. Poi è curiosa la varietà degli autisti di nazionalità straniera, che in qualche caso cercano di portare un tocco del proprio paese nella vettura, come in certi taxi pieni di chincaglierie colorate degne di un tempietto votivo. Indiani, pakistani, moltissimi, e dicono anche qualche italiano, seppure l'unico che ho conosciuto parlava con lo stretto accento del New England e ci teneva solo a raccontarmi che suo nonno era italiano, come dimostrato dal nome sulla targhetta. Ricordo che una notte, a Boston, la targhetta riportava una foto e un nome che decisamente non erano corrispondenti al conducente: vista l'ora tarda mi sono guardato dal farglielo notare, sono stato solo felice di essere riportato sano e salvo a casa.
Tornando agli amici a Chicago, trovarono invece un vero nativo di Chicago. Dopo un po' di chiacchiere capirono subito che il tipo era simpatico e disponibile, così decisero di farsi scarrozzare per tutta la città, mentre quello, da improvvisata guida turistica, raccontava loro di ogni piazza, monumento o jazz club storico.
Dopo che questa amica era tornata a casa, entusiasta del diversivo a Chicago, pensò di fare buon uso del nome del conducente, che nel frattempo si era annotata. Telefonò così alla compagnia di taxi di Chicago, per ringraziarli e per menzionare la persona favolosa che aveva trovato alla guida. La cosa però non fu facile: dopo un po' passaggi fra vari centralinisti e impiegati a disagio, riuscì a parlare con qualcuno che l'ascoltò fino alla fine. A quel punto, l'impiegato, sbigottito dalla telefonata le chiese "Ma lei... non ha chiamato per una lamentela?" "Ma no! Io ho chiamato per ringraziarvi! E per ringraziare questo autista!". L'uomo non riusciva a credere alle proprie orecchie.