mercoledì, marzo 31, 2010

Politica in numeri

Nei risultati elettorali il vortice dei numeri, fra le proiezioni dei risultati e i sondaggi (o exit-poll, per chi non parla o non riesce a parlare italiano), finisce spesso per confonderci un po' le idee.
Se da un lato finisce per essere chiaro quali e quante posizioni saranno occupate dai candidati (ad esempio in numero di seggi, o di assegnazioni), poco si legge di quel che è stato il coinvolgimento popolare. Solitamente viene condensato nella percentuale di votanti (o per converso di astenuti), mentre non vedo nei grandi titoli qualche calcolo pratico.
Faccio qualche esempio pratico, di natura puramente matematica o sociologica, piuttosto che politica. La prima considerazione dei vari movimenti (a livello pubblico) è sempre sulle percentuali: dalla comparazione con le percentuali di più o meno analoghe elezioni precedenti, ci dicono come sono andate (a loro parere) le loro prestazioni. Peccato che le percentuali non contino il numero d'individui, ma siano appunto volutamente una misura che non è influenzata dal numero di partecipanti al voto. Così finisce che qualche movimento politico dichiari che le cose per loro sono andate moderatamente bene, visto che hanno mantenuto la stessa percentuale sul totale, e qualcun altro si dichiara pure entusiasta di aver guadagnato punti percentuali, ma magari hanno entrambi perso elettori.

Vediamo un po' di numeri, partendo dai partiti maggiori. In questa tornata di Amministrative 2010, rispetto alle Europee del 2009, il PDL passa dal 35,3% al 26,78%, ma se contiamo la differenza sui suoi stessi elettori, da 10.807.327 a 5.843.420, ha subito un calo di quasi il 45% delle preferenze, come dire dimezzato. Il PD che fa mostra di uno stabile 26,1% nelle due tornate, in realtà ha perso il 27% di elettori. La Lega Nord, con l'emozione di essere salita dal 10,2% al 12,28% sul totale, nei fatti ha avuto un calo di elettori del 12%.
Fate pure il calcolo di tutti gli altri, e il risultato è sempre lo stesso: nessuno avrebbe di che esultare, se lo scopo fosse quello di soddisfare i cittadini.

Certo mi si può obbiettare che ci sono stati cambiamenti, partiti scomparsi o diverse alleanze, ma non su cifre così significative.
Si può poi additare che alcuni tipi di elezioni siano più sentiti, rispetto ad altri: ma che senso ha credere che la politica che amministra una regione sia meno importante di quella che amministra lo Stato?
Penso che un primo fattore interessante sia la volatilità di certe preferenze. Alcuni movimenti politici sembrano appoggiati da una base più costante (anche se più piccola nei numeri), altri hanno un grande consenso, ma incostante e volubile: se non si fa una campagna di grandi promesse, l'elettorato non si sente adulato e accarezzato a sufficienza da impegnarsi nell'esercizio di voto di pochi minuti.
Quei milioni d'italiani scomparsi, fra un'elezione e l'altra, una cifra ben impressionante, nella loro incoerenza decidono ben di più delle centinaia di migliaia che seguono assiduamente i partiti minori.
La democrazia si dimostra di nuovo come un esercizio del tutto utopico, dove chi combatte strenuamente per un qualsiasi ideale è infine ininfluente, facilmente cancellabile da un un gruppo sufficientemente ampio di ignavi e indolenti. La matematica ha così ragione di quello che ingannevolmente crediamo vero (la democrazia), solo perché accarezza la nostra etica e la nostra morale.

Visto che poi Loli mi rimprovera di non mettere immagini consone al tema, spero stavolta di aver azzeccato l'argomento: come non ritrarre il giusto contenitore?

lunedì, marzo 01, 2010

Banali unità di misura

Nel rapporto fra noi e l'ambiente che ci circonda definiamo sempre delle unità di misura, per descrivere quanto quello che ci circonda sia piccolo o grande. Non a caso le unità di misura primitive avevano origine da parti anatomiche o comunque da delle quantità a misura d'uomo. Ne rimane viva testimonianza nei paesi che tutt'ora impiegano quello che definisco tutt'ora, scherzosamente, il sistema di misura anatomico, contrapposto al Sistema Internazionale.
Curiosità vuole che mentre il progresso in alcune tecnologie cresceva rapidamente in paesi come gli Stati Uniti d'America, il sistema di misura non veniva aggiornato ai progressi scientifici. Così accade che in settori come quello dell'elettronica, sempre in grande evoluzione, le unità di misura di lunghezza più usate rimangano i pollici e i mil (millesimi di pollice).
Un'osservazione analoga mi capita spesso con i formati di data e ora. Mentre la suddivisione del tempo ha uno standard più largamente accettato (con l'adozione del calendario Giuliano prima e di quello Gregoriano poi), il modo in cui si scrivono le parti di questa misura (anno, mese, giorno) differisce nelle varie parti del mondo. L'idea che mi sono fatto è sempre legata alla nostra idea antropocentrica, si mette quindi al centro della misura quello che più si avvicina al nostro sentire, al nostro misurare. Così l'europeo vede spesso da vicino il trascorrere del giorno, seguito da mese ed anno, mentre invece gli anglofoni del nord America forse sentono più distintivo sapere qual è il mese, per poi dirne il giorno e l'anno. Dal punto di vista scientifico sarebbe più sensato l'ordine delle date usato in Giappone, con anno, mese e giorno: in fondo le espressioni numeriche hanno senso da quelle di misura più grande verso quella più piccola. Mentre probabilmente per i giapponesi è solo una diversa questione di percezione, e di come hanno recepito il calendario europeo.

Tutto è grande, tutto è piccolo. Analogamente, tutto è complesso, tutto è semplice: dipende da quanto è distante da noi.
Capire come si usano una matita o un paio di forbici, è semplice, è vicino alla nostra comprensione. Capire come funziona un grosso macchinario diventa complesso, lontano dalla nostra comprensione: tanto più è misterioso il suo scopo.
La nostra percezione di semplicità o di complessità, si lascia spesso ingannare da come percepiamo lo scopo di un oggetto o di un procedimento. Imbottigliare dell'acqua è semplice, perché dev'essere complesso imbottigliare un farmaco? Far viaggiare un'automobile è alla portata di tutti, perché dev'essere complesso far viaggiare un treno? Altro vale per un aereo: perché la nostra esperienza diretta è ben più difficilmente legata ai velivoli, che ai veicoli terrestri.
Viviamo quindi con un calderone d'idee spesso sbagliate, quando si cerca di dividere quel che è facile da quello che è difficile.
Un amico, dopo aver raccontato alla figlia di occuparsi del progetto di cose elettroniche, s'era sentito chiedere "allora, se ho bisogno di un telefonino [n.d.r. telefono cellulare] puoi costruirmelo tu?". In fondo che ci vuole, è solo elettronica, se ne vendono tanti, possono essere oggetti semplici, no?

Le tecnologie elettroniche sono un mondo d'esempio, per chi vi ha lavorato e seguito il loro sviluppo degli ultimi trent'anni. Qui infatti si è passati rapidamente da oggetti piuttosto rudimentali, a prodotti raffinati e complessi. Quello che un tempo poteva essere il lavoro di poche persone, su un apparecchio di larga diffusione come un telefono, è divenuto un'impresa impegnativa per aziende di grosso calibro, come investimenti tecnologici e finanziari.
Il fatto però di poter acquistare il prodotto finito, a basso costo, e di poterlo usare, senza troppa fatica, spinge a credere che si tratti di oggetti banali, ancor più semplici.

Questo fenomeno della banalizzazione sta crescendo a mio avviso in modo inusualmente preoccupante. Se da un lato l'obbiettivo ottimale di ogni prodotto elettronico, anche complesso, è di essere facilmente utilizzabile, dall'altro sta conducendo a un livello d'incultura progressivo.
Anziché far acquisire la soddisfazione di avere accesso facile a funzioni altrimenti complesse, si è prodotta l'insoddisfazione di aver accesso a cose di qualsiasi maggior complessità, altrettanto facilmente.
Non sono dell'idea che ogni cosa debba sempre essere sviscerata nella sua più profonda complessità, ma vorrei vedere più spesso riconosciuto il lavoro d'ingegno, così come quello produttivo, mentre al contrario viene quotidianamente sminuito (anche nelle produzioni asiatiche a basso costo e bassa qualità).

In un'intervista che leggevo oggi, il compositore Ryuichi Sakamoto menzionava come la musica non viene più pensata come un lavoro che ha un suo costo. Precisava come inoltre stia addirittura cambiando il paradigma per cui si scaricano gli mp3, sostituito da un ascolto su YouTube: la differenza può risultare sottile, ma effettivamente nel secondo caso non ci si preoccupa nemmeno più del brano musicale, ma del solo ascolto. Un consumo che non tratta neppure più il bene di cui fa uso (o abuso).
La sua memoria di quel che poteva accadere cento e passa anni fa, di quando non esisteva nessun tipo di musica registrata, ma solo dal vivo, riporta a quella misura più vicina alla complessità dell'opera (musicale, in questo caso).
Sono d'accordo con Sakamoto, quando dice di non sapere come si possano cambiare le cose, e che in qualche modo andremo avanti, anche quando il nostro lavoro non viene riconosciuto. Vedo però la crescita di grandi spazi bui, dove nessuno ha più il righello giusto, per misurare il lavoro e la cultura.