mercoledì, novembre 23, 2011

Ora ics

Leggo oggi un quotidiano cartaceo, "La Repubblica", che è in vendita con un inserto (più di 30 pagine, rilegate a parte), pretestuosamente intitolato alla fine del calendario Maya nel 2012. In realtà l'inserto è dedicato agli orologi, nella fattispecie orologi da polso.
Sfilano alla base delle pagine interne, sotto gli articoli, degli orologi recensiti, immagino bene a scopo pubblicitario. Breve descrizione, prezzo bene in evidenza. Conto 40 modelli di orologi, ve ne sono da 49 Euro, ma anche da 81500 Euro (ottantunomilacinquecento). Conto ancora meglio: i modelli sopra i 3000 Euro sono ben 27, quasi il 68% dell'offerta pubblicitaria indicata direttamente dall'editore -- escludo le pagine pubblicitarie esplicite delle aziende.

Quale messaggio leggere, da un quotidiano che fin dalla prima pagina ci parla di crisi finanziaria, di politici accusati per peculato, e che conclude così?
Nelle prime pagine le stoccate e la satira che soddisfa chi lamenta la povertà della nostra economia, ma in un inserto a parte il lusso dedicato a chi non ha risentito di crisi, e che magari si sta spartendo ancora più denari. Stride veramente, l'accoppiata fra le pubblicità dei voli a basso costo e l'imperante ondata pubblicitaria dei marchi di lusso. Qualche pagina per le pubblicità dei sottocosto e molte per i grandi marchi, o se vogliamo anche del sovracosto, dove per avere qualcosa il cliente è desideroso di spendere di più, per appagare la propria autostima ("valgo più degli altri in quanto posso spendere di più").
In tutto questo i grandi assenti: aziende e prodotti di fascia media, perlomeno nei costi.

Giorni fa mi è capitato di vedere parte della trasmissione (ormai non più soltanto televisiva) del signor Michele Santoro, tale Servizio pubblico. Se da un lato c'è da rallegrarsi, che qualcuno abbia trovato un modo per mostrare quello che la maggior parte dei media nasconde, dall'altro è uno sconforto sentire le solite lamentele.
Non parlo di chi ha perso lavoro, casa, o altro, nella totale indifferenza generale. Mi riferisco piuttosto a chi ha colto l'occasione della disgrazia per cominciare a costruirsi un mondo utopico, in cui vorrebbe vivere, e che non accetterà mai niente di diverso da quello. Non troverebbe accettabile un'uscita progressiva dalla crisi economica, ne vuole una subito, senza rimetterci niente, facendo pagare tutto a chi ha grandi capitali. Come pensare che una soluzione del genere sia fattibile, se non in un mondo utopico: è evidente che nessuno potrebbe imporre una tale rottura, nel mondo reale.
L'assurdo è che schiacciati dal reale, si preferisca pensare che l'unica soluzione sia nell'irreale. Comincio ad avere una certa nausea per le espressioni idiomatiche del momento, come quella sul timore dei "poteri forti": è evidente che chi ha un potere, sia forte, altrimenti non avrebbe potere. E' evidente che l'economia sia controllata da chi ha potere economico. La favola delle masse che dettano l'economia di un paese, per il benessere della popolazione, è naufragata miseramente, come dimostrato dalla condizione cinese (esempio in grande) o cubana (esempio in piccolo).
L'ideologia anarchica è impermeabile a qualsiasi buonsenso, al pari di quella che il capitalismo possa accrescersi a costo zero. Guardandosi intorno, ascoltando la gente, messi da parte telefoni cellulari e computer, non sembra si siano fatti grandi passi dal XIX secolo dell'era volgare.

Probabilmente non esiste una crisi solamente economica, le basi della crisi sono fortemente sociali, e qui diventa difficile capire per quale data del calendario sia possibile riemergere.
Qualcosa di azzeccato, nel calendario dei Maya c'è. Non si può pensare a un calendario perpetuo, siamo portati naturalmente a qualche deriva, dei punti nodali nei quali il vivere che pensavamo sostenibile improvvisamente non lo è più. Sono proprio curioso di vedere il limite del prossimo calendario in scadenza.

mercoledì, novembre 16, 2011

Similitudini pericolose

Se c'è un argomento che mi causa arrabbiature considerevoli è la manipolazione intenzionale dei dati scientifici. Figurarsi poi se è collegata a scopi truffaldini, con schemi chiaramente di scarsa onestà intellettuale.
Una cosa è infatti sostenere affermazioni che poi si rivelano errate, come accade spesso nella normalità delle ricerche scientifiche. In questo caso, seppure a malincuore, non resta che fare un passo indietro e scegliere un'altra strada.
Altra cosa è continuare a tentare di piegare l'evidenza, in modo testardo o appunto fraudolento. Un caso fra tutti? Quello dell'omeopatia: leggete quel che cito, e scegliete da soli se appartiene a un caso di caparbietà o di mero interesse.
Un articolo recente, breve ed incisivo, viene dal signor Dario Bressanini, che ho già citato qui per altre faccende, e che in questo caso sguazza come un ippopotamo nel fango, essendo un chimico fisico.
Richiamo poi all'attenzione il sito originario dell'immagine che propongo, http://www.1023.org.uk/ ("Omeopatia, non c'è niente dentro") che rappresenta un breve compendio e una serie di esempi pratici, sull'inefficacia e persino la pericolosità dell'omeopatia. Eh sì, perché c'è un aspetto pericoloso di cui tener conto, che se anche (fortunatamente) non porta spesso a casi estremi, come quello recente del bimbo deceduto, ha un potenziale negativo considerevole.
Torna poi sempre utile il riferimento a James Randi, per chi ha dimestichezza con l'inglese nel suo intervento in video. In fondo quasi annoia anche me, dover sentire e leggere continuamente di questo premio Randi: un milione di dollari a chi dimostri come l'omeopatia funzioni, e nessuno che si faccia avanti per tentare di riscuoterlo. A ben pensarci, perché perdere la faccia per un solo, misero, milione di dollari americani, quando il business dell'omeopatia vale nel solo Regno Unito 40 milioni di sterline?
E dire che fra i sostenitori dell'omeopatia c'è chi lamenta di essere ostacolato dalle grandi compagnie farmaceutiche, per motivi di denaro.
Chissà qual è il rimedio più efficace per curarsi dalla cattiva scienza: quello dei simili di sicuro non funziona, visti i risultati.

giovedì, ottobre 13, 2011

Morte di un personaggio

Il titolo non è teatrale, ma si riferisce alla dipartita di un personaggio importante, nei giorni scorsi. Qualcuno che ha posto basi molto importanti per l'informatica moderna (non dico rivoluzionarie, mi sembra sempre un eccesso parlare in tali termini). E non solo per l'informatica, ma per tutto quello che è il settore dell'elettronica moderna, dove ogni dispositivo ha quella che in gergo si dice "intelligenza" (pur senza avere relazione verso la definizione reale del termine).
Eletto dalla National Academy of Engineering, una delle più prestigiose onorificenze negli Stati Uniti d'America, per il suo contributo ai linguaggi di programmazione e dei sistemi operativi, il caro estinto ha condizionato in modo fondamentale lo sviluppo dell'informatica, tanto che i suoi maggiori successi sono tutt'ora fondamentali, dopo quarant'anni e passa.

Qualcuno può avere fin qui travisato la persona di cui sto parlando: mi riferisco al sig. Dennis M. Ritchie, ideatore e creatore del sistema operativo Unix (tutt'ora alla base della Internet, ha fornito le basi a tutti i sistemi operativi moderni, quali anche OS X e Windows, e il precursore di Linux), oltre al linguaggio di programmazione "C".

C'è da dire che la sua morte è passata in secondo piano, visto che pochi giorni prima era morto qualcuno che ha gettato scompiglio nelle prime pagine dei giornali, tutte impegnate ad accaparrarsi il migliore e più incisivo memoriale.
L'altro signore famoso invece non era citato dalla National Academy of Engineering, al contrario era ben servito da lancio pubblicitario per università ad indirizzo tecnologico. Che però non potevano elencare qualcosa di tecnologicamente rilevante (figurarsi "rivoluzionario", che non ho scritto per Ritchie), ma potevano saldamente offrirlo come esempio di management vincente.
Convertire la tecnologia in una setta, nel culto di un pezzo di plastica, è decisamente rilevante, dal punto di vista sociologico (e di rendimenti azionari, come ci mostrano gli indici), ed è il merito indiscusso del signor Steven Jobs. La sua nutrita pagina di descrizione su Wikipedia (mentre quella di Ritchie è decisamente scarna) ce lo descrive anche come titolare di ben 342 brevetti, che non pare poi granché, dati i mezzi attuali della sua compagnia, al confronto dei 1093 brevetti di Thomas A. Edison. In fondo trovo che sia più memorabile per aver trovato una strada per la fidelizzazione più efficace della stessa Scientology.

Rimango dell'idea che se qualcosa finisce per non essere inventato oggi, continua ad avere buone possibilità di esserlo domani, magari da qualcun altro. Così se il signor Ritchie non avesse realizzato Unix e linguaggio "C", forse oggi saremmo più o meno nella stessa condizione evolutiva (a livello informatico). Questa mia affermazione non toglie niente ai meriti di Ritchie: quel che ha ideato rimane importantissimo.
Lo stesso vale per il signor Jobs, che ha un po' il merito di chi brevetta la nuova carrozzeria di un'automobile, quando le automobili esistono già da tempo. E che ha mostrato una buona pervicacia anche dopo evidenti buchi nell'acqua: fate un paragone fra lo Apple Newton dei primi anni '90 e l'attuale iPad, evidentemente bastava insistere finché i tempi erano maturi, su una strada già ben descritta da altri.

Non dimentichiamo comunque che il settore informatico è sempre stato territorio di guerre di religione. Ogni nuovo arrivato si è sempre proclamato portavoce della Unica e Sola Verità, finendo talvolta deriso, altre acclamato.
Chi ha dato di più di solito è arrivato a farsi notare anche per le sue peculiarità, o per il solo essere eclettico. Questo mi fa pensare sempre a personaggi come il signor Richard M. Stallman, che sicuramente ha ideato a sua volta altre basi dell'informatica moderna, pur detenendo un particolare caratteraccio.

Luoghi unici al mondo

La scorsa settimana ricevo una lettera raccomandata, e sfortunatamente, non essendo mai in casa alla consegna della posta, devo recarmi fino all'ufficio postale per ritirarla. Doppia scomodità, vuoi perché il personale dell'ufficio vive nell'ignavia ed indolenza, sia perché devo comunque dedicarvi il mio tempo.
La missiva proviene da Agenzia delle Entrate, che mi intima il pagamento di 119,03 Euro per un errore nella mia dichiarazione dei redditi 2010. Visto che ne delego la compilazione a dei professionisti, mi sento già sconfortato dal doverli chiamare e sgridare. Rientro così in ufficio e leggo meglio il documento.
Risulta così che a fronte di un "importo dovuto" di 0,00 (zero) Euro ho un "importo omesso" di ben 0,00 (zero) Euro, e che quindi vengo sanzionato per 115,70 Euro, oltre a 3,33 Euro di interessi.

Ecco la grande trovata, la rivincita tributaria, la ricetta anti crisi: sanzionare chi non deve alcunché?
Ma no, evidentemente c'è un disguido. Eppure non mi è chiaro, come può una cifra di zero Euro produrre ben 3,33 Euro d'interessi?
Giro copia del documento a chi segue la contabilità, chiedo così una spiegazione. Che mi arriva poco dopo, ed è ai limiti del ridicolo.
Praticamente, Agenzia delle Entrate non ha gli estremi di un versamento fiscale, eseguito comunque nei modi corretti. Così devo inoltrare nuovamente la documentazione del pagamento. Ah ecco. E di che documentazione si tratta? Di una ricevuta di pagamento, rilasciata da... Agenzia delle Entrate.

Quindi spendono i soldi di una raccomandata, il mio tempo per il ritiro, lo scambio di comunicazioni fra me e lo studio contabile, il tempo della commercialista che si presenta presso gli uffici di Agenzia delle Entrate, munita di mia autorizzazione e copia di un documento d'identità, per chiudere una pratica con un documento che loro hanno già.

A quanto ammonterebbero gli interessi che dovremmo detrarre, come contribuenti, dallo stipendio di chi legittima queste perversioni?

P.S.: La perla del titolo è nella pagina di giornale raffigurata, leggendo tutti i titoli (pubblicità compresa)

martedì, agosto 23, 2011

Tavolette laiche

Torno con un breve racconto sui cosiddetti calcolatori personali a forma di tavoletta, o se vogliamo tablet PC, perché mi sono trovato veramente sorpreso ed emozionato nel leggerlo a mia volta.
In verità l'origine della storia non è certo un racconto di fantasia, ma una pubblicazione scientifica, relativa ad una conferenza dell'associazione per il calcolo automatico.
In questo ristretto universo dell'informatica contemporanea (periodo compreso entro poche settimane o mesi, da cui queste parole vengono scritte), dove è sufficiente uno show di presentazione per eleggere un prodotto a nuova tavola della legge, è veramente sorprendente leggere l'articolo di Alan Kay che ho pescato in rete. Un articolo che direi notevole per due o tre punti.
Il signor Kay ci racconta di un computer di uso personale ("posseduto dall'utente [...] con un costo non superiore a quello di un televisore"), portatile ("l'utente può trasportare facilmente il dispositivo con sé insieme ad altre cose"). Con una dotazione di funzioni che ci paiono quasi usuali: uno schermo piatto, tastiera sul lato inferiore o direttamente touch screen, interfacciabile con un sistema di trasferimento dati e ricarica della batteria (come USB), così come con una memoria di massa e con comunicazione diretta con altri dispositivi simili (come wi-fi o Bluetooth). E ancora, con interfaccia grafica adeguata alla visualizzazione, per finire col diventare un dispositivo principalmente di uso educativo, come un e-book reader.

Quello che ho descritto suona per tutti normale. Se poi aggiungessi che questo signor Kay ha lavorato anche per Apple, sembrerebbe pure ovvio.
Ma non ho ancora scritto qui alcuni dati fondamentali sull'articolo. La cosa più sconvolgente è che l'articolo è datato agosto 1972. Sì, risale esattamente a trentanove anni fa. Se fate anche solo mente locale, potrete realizzare che non solo in quell'epoca non esisteva ancora Apple, ma non esisteva niente che potesse sembrare un computer portatile, e perfino non esistevano i personal computer.
Il signor Kay lavorava infatti per Xerox, nei laboratori californiani dove venivano (realmente) inventate tutte quelle cose con cui oggi qualche santone del marketing cerca di stupirci: i personal computer, le interfacce grafiche a finestre, il mouse per computer, i tablet PC (per l'appunto), fino alle stampanti laser e ai sistemi di grafica professionale.
E' emozionante vedere quanto il signor Kay avesse predetto del futuro, con così poche realizzazioni pratiche nelle mani, ma senza strafare in fantascienza.
Appare invece sconsolante come negli anni a seguire, chiunque abbia beneficiato di quelle ricerche, abbia cercato di raggirare tutti con promesse di prodotti "innovativi", se non addirittura "magici". Penso al signor Steve Jobs, che ha impiegato una decina d'anni per vendere una copia dei sistemi Xerox su larga scala, passando per un flop clamoroso (per chi ha visto, come me, l'Apple "Lisa"). E dopo aver avuto come collaboratore nientemeno che Kay, ha impiegato quasi quarant'anni per creare la nuova copia di un progetto dei primi anni '70, per definirlo "un oggetto magico".
Semplicemente imbarazzante, per chi lo guarda dall'esterno, per un laico. Per chi invece segue la dottrina, l'ultima parola, dell'ultima convention, è il verbo. Alla faccia della storia.


lunedì, agosto 08, 2011

Vendite straordinarie

Dopo essere stato per un bel po' perplesso, sulle previsioni di vendite sciorinate da alcuni analisti del settore informatico, devo confessare che qualcosa mi ha fatto ricredere sul futuro dei PC e dei cosiddetti tablet.
L'annuncio ricorrente infatti è sempre stato quello che i tablet computer (ovvero quelli in forma di tavoletta, con tutto lo spazio occupato dall'area visiva, sensibile al tocco) avrebbero a breve surclassato le vendite di molti altri dispositivi. Si prevede così da mesi la fine imminente di sistemi desktop e ancora di quelli portatili notebook/netbook.
Quello che mi rendeva scettico è che spesso queste "previsioni di mercato" sono da prendersi più propriamente come "pubblicità di mercato", ovvero come indicazioni per spingere gli utenti all'acquisto della novità del momento, della nuova moda. Su questo piano non mi sono ricreduto, continuo ad essere più che certo come tali affermazioni siano in realtà pilotate dalle necessità commerciali.
I punti su cui molti focalizzavano la differenza dei sistemi, quale l'assenza di una reale tastiera e la differenza prestazionale di calcolo, rivelano in verità quello che ho intuito in seguito.

Ripensate all'informatica di vent'anni fa. Qualcuno magari la ricorda ancora, seppure si tenda a dimenticare rapidamente il tempo in cui i computer non erano così ubiqui. Pensandoci bene sembra ancora più strano chiamarli, alla lettera, calcolatori, visto che ne facciamo sempre meno (consapevolmente) uso per delle funzioni di calcolo. Sono invece divenuti estensione dei mezzi di comunicazione, anche di quelli convenzionali, come televisione e telefono.
Una ventina d'anni fa invece era meno comune pensare di tenere un computer in casa, a meno di non essere degli appassionati di nuove tecnologie. Qui in Italia non si era ancora diffusa Internet, e gli strumenti di calcolo evadevano molto più raramente dalle loro funzioni lavorative.

L'intuizione è stata che in fondo, l'utente medio, non ha alcun interesse su quel che fa un computer, ma solo su quello che gli permette di raggiungere. E non solo.
Diventa così inutile catalogare l'oggetto computer con troppi termini complessi: ha bisogno di essere semplice, esaltare i mezzi di comunicazione senza fatica, senza doversi domandare come funzioni.
In una curiosa parabola della complessità, si nasconde una curva in salita dell'evoluzione dell'uso: il tablet rende di nuovo semplice la fruizione dei contenuti, come nato dall'incrocio fra un televisore e il suo telecomando, con l'aggiunta dell'interattività. Un'interattività limitata, visto che pochi scriveranno romanzi con un tablet, accarezzandone lo schermo, e altrettanto pochi vi trasferiranno (per ora) delle attività lavorative complesse. Ma questo è il nocciolo: la caratteristica vincente è la fruibilità di ciò che si trova pronto, più che l'uso per creazioni complesse.
Il tablet è vincente, nel consumo delle informazioni, quando questo supera la produzione d'informazioni.

E' ovvio poi che ci siano considerazioni sui costi dell'oggetto, spesso non indifferenti, ma in breve potrebbero ridursi in modo significativo. Magari a quel punto cresceranno le vendite di uno o anche due ordini di grandezza.

venerdì, luglio 01, 2011

Adattamento critico

Torno spesso a citare i cosiddetti studi di settore, un po' perché mi riguardano, ma anche perché li trovo significativi di come la politica fiscale sia notoriamente scollegata dal mondo reale.
In teoria si tratta di calcoli e tabelle atte a chiarire se un libero professionista, un lavoratore autonomo, o un'impresa, sta dichiarando un reddito realistico, oppure è un possibile evasore fiscale. Questo sulla carta.
Nell'articolo che li riguarda, su Wikipedia, leggo persino che "[...] sono costruiti secondo un rigoroso procedimento statistico", e giù a sciorinare termini come cluster, regressione multipla, e tutto quello che si può in nome della statistica.
Per rendere chiaro il risultato che ottiene, tutta questa (presunta) alta matematica applicata, racconto un piccolo aneddoto.

Nella compilazione della dichiarazione dei redditi, la commercialista mi annota che possiamo sperimentare con i numeri se un determinato reddito è congruo, sul suo applicativo che ha sul computer: decidiamo allora di giocare un po', per vedere cosa succederebbe, cambiando alcuni parametri.
Anzitutto mi evidenzia che sono in atto i correttivi per la crisi, che vanno quindi a modificare i parametri anche per i redditi 2010. Ah bene, dico io, vediamo che succede allora se riportiamo esattamente i miei parametri di ore lavorate nel 2009, anno in cui fra crisi del settore e motivi di salute, ho toccato davvero un minimo storico.
Sorpresa: non sarei stato congruo.
Cosa significava in cifre? Che nell'anno 2010, pure con l'effetto della crisi, avrei dovuto guadagnare il 50% in più rispetto al 2009, a parità di ore lavorate. Come dire che nel 2009, con 10 ore di lavoro potevo guadagnare 400 Euro (lordi!), ma le stesse 10 ore di lavoro nel 2010 mi dovevano rendere almeno 600 Euro. Ma l'effetto di una crisi non è quello contrario?
Per i sapienti economisti del Ministero e dell'Agenzia dell'Entrate il risultato è invece del tutto contrario, e tramite un "rigoroso procedimento statistico" ci fanno sapere che se il mondo cade in un baratro economico, diventiamo tutti più ricchi. E chi non lo diventa è un ladro.

venerdì, giugno 03, 2011

Energie sconvenienti

Ho assistito casualmente ad uno di quegli spettacoli indecorosi (e probabilmente dati più spesso di quanto io sappia) trasmessi dai media italiani. Quelle insalate miste, in cui tutto si mette assieme, nella pretesa di varietà e completezza, ma il gusto finale rimane sempre deludente.
Il primo punto, invariabile, è che politica e scienza non sembrano proprio coniugabili. Mentre la prima tende ad aggiustare i fatti perché aderiscano alle idee, è scontato che la scienza non possa che costringere a piegare le idee all'evidenza dei fatti. Se aspettate di veder cadere una mela dall'albero, e ne cadono due, la scienza constaterà che per quanto imprevista, la caduta c'è stata (e la studierà), mentre la politica affermerà che la seconda mela è stata vittima delle pressioni di forze economiche e sociali avverse, in un atto sovversivo.
Oltre ai politici esperti, anche le persone semplici tendono a cercare le spiegazioni in altre persone, anziché capire i fatti. Con buona pace del pensiero scientifico.

Il tema era il prossimo referendum sul nucleare, ovvero sulla futura costruzione di centrali elettriche alimentate dall'energia da fissione nucleare.
Il fatto più curioso è che nonostante io abbia un parere negativo, sulla riapertura di centrali nucleari in Italia, ho assistito ad una bagarre che non ha mai sollevato nessuno dei temi per cui io sono contrario. Mi viene da pensare che qualcosa non funzioni: forse le mie preoccupazioni non sono una buona leva per l'opinione pubblica?

Il primo argomento, condito con immagini da cuore tenero, era per i postumi dell'incidente nucleare di Chernobyl, del 1986. Ora, assodato il fatto che ogni malattia o problema di salute, sia bene cercare di evitarlo per tutti, divento propriamente furioso, quando viene strumentalizzato. Così come prima di Natale si propinano le immagini della fame in Africa, per le raccolte fondi. E' chiaro che sia un metodo funzionante, se viene riproposto ad ogni occasione, e in particolare funziona bene se si presentano bambini sofferenti: l'immagine colpisce sempre.
Quello che mi fa infuriare è il fatto che tali presentazioni di solito non vengono usate per dimostrare dei fatti, ma solo per colpire a livello emotivo. Non accetto mai i ricatti, se si vogliono presentare fatti è sufficiente un foglio scritto, non una sapiente regia cinematografica.
Se vogliamo restare in ambito di comunicazione di massa, mi viene da ricordare come lo stesso documentario di Al Gore di alcuni anni fa, An inconvenient truth, sapeva rendere ottimamente certi problemi, senza usare una manciata di bambini sofferenti come spettacolo. Ma torniamo alla divulgazione scientifica, quella che non fa presa sull'elettorato ignorante, da carpire con modi più rozzi.
Vorrei che ogni tanto qualcun altro ci pensasse bene, all'incapacità figurativa e di comprensione, che alimentiamo in questo modo. Se dico che fare un certo lavoro, senza le adeguate norme di sicurezza, può essere pericoloso, quasi nessuno lo comprende. Se mostro la foto di una persona smembrata, in mezzo al sangue, allora ho qualche possibilità che sia compreso il concetto. Questo è il primo aspetto preoccupante.

Sinceramente ho sentito tante di quelle volgarità, banalità e assurdità, sia dai nuclearisti che dai contrari, che non so quali citare per prime.
Un signore, qualificatosi come portavoce di Greenpeace in Italia, nel tentativo di dichiarare l'estrema fragilità delle centrali nucleari, ha richiamato il recente incidente di Fukushima, affermando che è bastata "quella poca acqua" (sic) a creare un disastro. Immagino che con "quella poca acqua" intendesse quel piccolo tsunami che ha fatto oltre 15mila morti accertati e altrettanti fra feriti e dispersi. Fortuna che il piccolo terremoto che l'ha preceduto non avesse già danneggiato la centrale, ma come ha detto lui, bastano questi piccoli eventi a creare grandi disastri. Solo se c'è una centrale nucleare in zona, ovviamente.
Una rappresentante del Governo ha aggirato per tutto il tempo dello spettacolo (non si può definire altrimenti) la domanda sul fatto che l'esecutivo ha prodotto un decreto per cercare di raggirare gli italiani al voto - fingendo uno stop al nucleare, dichiarato poi fasullo dallo stesso Presidente del Consiglio ad un capo di stato straniero, in un evento pubblico.

La favola poi più amata da tutti, è che per la produzione energetica abbiamo già delle alternative meno inquinanti. Fatevele elencare, perché c'è di che sorridere.
Le energie cosiddette rinnovabili sono purtroppo, allo stato attuale, solo integrative, rispetto al bisogno energetico reale. L'eolico non inquina, ma neppure gli accaniti ecologisti lo vogliono: perché deturpa i paesaggi. Il solare fotovoltaico viene gradito solo in piccoli impianti, i cui costi sono alti e sostenuti solo da forti incentivi statali (come dire che lavoriamo, per pagare le tasse, che pagano una fonte di energia altrimenti troppo cara). L'idroelettrico e il geotermico sono utilissimi, ma non possono certo coprire grandi fabbisogni.
E non parliamo a questo punto delle non rinnovabili: carbone e petrolio producono CO2, e per quanto filtrati possono causare inquinamento atmosferico anche da prodotti tossici - si stimano 2 milioni di morti l'anno per questo (purtroppo non ho sottomano un filmato in cui far vedere qualche decina di persone mentre muoiono per tumore ai polmoni).
Immagino che con i gas naturali, per quanto siano ridotti molti inquinanti, rimanga comunque il grosso problema CO2, e quindi siamo alle solite.
Oggi leggevo un articolo sul reattore ITER, progetto grandioso, che seguo da anni, ma di cui chissà se vedrò mai i risultati pratici, nella mia vita.
Nel frattempo qualcosa di diverso si deve pur fare.

Non ho dimenticato di elencare i motivi per cui trovo complicata o pericolosa, la realizzazione di nuovi impianti nucleari in questo paese. Sono sempre i soliti, che ho citato spesso: se non sappiamo neppure smaltire i rifiuti urbani, come ci possiamo occupare di smaltire scorie nucleari? Se non sappiamo neppure costruire una scuola, con la sicurezza che resista a un terremoto, e non sappiamo risolvere le infiltrazioni criminali negli appalti di un'autostrada, come possiamo costruire in sicurezza una centrale nucleare?
Solo che questi argomenti non si possono toccare, per due motivi. Il primo è di orgoglio nazionale: nessuno vuole sentirsi raccontare troppe incapacità degli Italiani.
Il secondo motivo è che non abbiamo ancora a portata di mano un video, con telecronaca, che mostra il crollo disastroso di una centrale nucleare sul suolo Italiano: fino ad allora, fino alla prova documentale, come si potrebbe mai convincere l'italiano medio di quel che accade in Italia?

sabato, aprile 02, 2011

Squilibri ambientali

Lo sconvolgimento ambientale e sociale di qualche settimana fa in Giappone, dalla somma di un forte terremoto, seguito da un maremoto e poi da un grave incidente nucleare, ha risollevato il livello di preoccupazione per questo tipo di produzione energetica. Sicuramente c'è chi è sempre stato preoccupato, ed ha colto l'occasione di essere più ascoltato del solito, mentre chi proponeva la reinstallazione di nuovi impianti nel nostro paese ha dovuto fare qualche passo indietro.
Quello che ho trovato più interessante, al solito, è il vortice di cifre in cui siamo stati coinvolti, dai mezzi d'informazione. La cultura scientifica dell'italiano medio è sicuramente a livelli indecorosamente bassi, se ne trae la facile conclusione in ogni occasione. Figurarsi l'effetto di notiziari di vario genere che cominciano a sciorinare con disinvoltura microSievert e milliSievert, ogni tanto sbagliando fra i due (e quindi di un fattore mille), poi mischiando le dosi dell'esposizione oraria, giornaliera e annuale, infine dandoci le misure del livello di radioattività locale in Becquerel, che ovviamente misura qualcosa di diverso.
Un risultato è che qualcuno si sia sentito in immediato pericolo di radioattività, fin da noi, per il solo fatto che questa venisse misurata e resa nota. In condizioni normali, senza incidenti (noti) in corso, non si sarebbe altrettanto sentito in pericolo, visto che nessuno citava misure in relazioni ai fatti. Questo è un chiaro indice di scarsa cultura scientifica, ma anche un'indicazione di come l'informazione sia facilmente manipolabile.

Leggo poi oggi un articolo di una testata giornalistica on-line, che cita un po' di fatti e documenti sugli incidenti giapponesi recenti. Eppure, come in un deja-vu, ancora non ho finito di leggere e già ho compreso due cose.
La prima è che la morale di l'ha scritto sarà sempre quella della Cassandra giornalistica, quindi che tutto il male derivato da questo incidente era annunciato, prevedibile, dal solo fatto che si stesse usando energia atomica. Un po' come la conclusione di quel cretino che ha bollato il disastro come "castigo divino" (disponibile a questo link, se avete la pazienza di ascoltare qualcuno che dice "fortunati coloro che sono morti"), riportato su una radio italiana voce del fondamentalismo cattolico - e mai la parola cretino poteva essere meno adeguata, visto che nell'etimologia è equivalente a cristiano (nessuno se la prenda, se riporto alla lettera una voce del dizionario italiano).
La seconda conclusione dell'articolo detto sopra, è che l'incidente è avvenuto perché non è stata garantita la sicurezza degli impianti, come altri analoghi della stessa area. Si legge che quindi si poteva sapere di un possibile tsunami di quella entità, perché una centrale ancora più vicina all'epicentro aveva le necessarie norme di sicurezza e non ha riportato danni. Nel caso di Fukushima invece, si legge che erano mancati controlli di sicurezza da anni.
L'ironia delle conclusioni è che smentiscono quanto detto per spiegare l'incidente: se l'incidente è avvenuto perché l'impianto non era sicuro, mentre con le normali norme di sicurezza non ci sarebbe stato disastro, non era sufficiente garantire le normali norme di sicurezza?
Il giornalista conclude invece che per la sicurezza dell'ambiente, non si debbano seguire le misure di sicurezza (che lui stesso descrive come adeguate), ma che semplicemente si evitino gli impianti nucleari. Certo è una soluzione possibile, ma c'è un difetto non indifferente nel ragionamento.

Andiamo per esempi più semplici, magari comprensibili da tutti.
Se il custode di una grande cisterna di benzina si fuma una sigaretta, e provoca un'esplosione con decine di morti e centinaia di feriti, cosa se ne deduce? Dal ragionamento del giornalista succitato, viene una conclusione secondo cui la benzina è pericolosissima, sapevamo già che inquina, e infine genera morti e distruzione. Non resta che bandirne l'uso già da domani.
E che succede se si pensa ad una tragedia come quella del Vajont? Si cerca di evitare la costruzione di qualsiasi diga futura e si cancella la produzione idroelettrica, oppure si affrontano i problemi di sicurezza?

A fugare qualsiasi cattiva interpretazione, sottolineo bene un fatto: il ragionamento non ha niente a che vedere con gli altri svantaggi dell'energia nucleare. Lo smaltimento dello scorie, anche in una centrale perfettamente funzionante e manutenuta, rimane un problema a sé, è ovvio.
Il punto è sulla deriva oscurantista a cui siamo sottoposti quotidianamente, alla falsa sicurezza a cui ci affidiamo ciecamente, semplicemente evitando qualcosa; all'estremo, evitando qualsiasi cosa. Perché il limite per ciò che è accettabile, non pericoloso, è veramente labile. Un bicchiere d'acqua fresca è salutare, ma pochi litri d'acqua ci fanno annegare.

Il primo squilibrio con cui l'ambiente ha a che fare siamo noi, con il nostro terrore di fare qualcosa o la sprovvedutezza con cui si fa del tutto.
Trovare l'equità, da accettare come compromesso, è difficile. In quanto il nostro vivere è in ogni caso una parziale modifica dell'ambiente, da farsi con il limite di non perderne il controllo. Vivere senza modificare il nostro ambiente è del tutto improbabile, se non finanche impossibile, visto lo sviluppo della nostra specie.

Postilla: e il nucleare in Italia? Beh, appena saremo sicuri di costruire qualsiasi casa, scuola, ospedale, con i muri che non crollano alla prima pioggia, forse si potrà pensare a qualche progetto più ambizioso.
E almeno nel costruire edifici stabili non è un problema tecnico, per quelli abbiamo già le soluzioni.