martedì, novembre 01, 2005

Globale

Per quanto io stesso abbia tendenze estremiste (non necessariamente cattive, semplicemente estremiste) sono decisamente contrario agli estremismi.
Quando mi dico estremista intendo anche in quelle espressioni che magari estremizzano il babbo natale che c'è in noi, o anche l'ottimista.
Ogni espressione estrema, secondo il mio pensare, ha un potenziale pericoloso. Chi valuta la pericolosità e chi ne soffre, possono poi essere persone diverse.
S'immagini ad esempio un Buddha che predica felicità, decine milioni di persone che ci credono e la realizzano, con il pericolo di crollo di tutti i governi coinvolti. Migliaia di politici che non riescono più ad essere falsi e credibili allo stesso tempo. Se sono stati tolti di mezzo Martin Luther King e Gandhi, figuriamoci chi ottenesse di più.

Il primo punto, di qualsiasi cambiamento, è la gradualità.
Nella gradualità si vedono accettate anche cose ignobili, non solo quelle nobili, ma del resto le rivoluzioni hanno solo portato impulsi di cambiamento: non mi risulta che nessuna rivoluzione abba portato, da sola, un cambiamento sostenuto nel tempo.
C'è un tempo per la gradualità.
Perché ne abbiamo bisogno, per umanizzare il cambiamento, per comprenderlo.

Sono finito lontanissimo dal titolo, ma cerco di riprenderlo.

La globalizzazione è un cambiamento buono o cattivo?
Ora qui sorgono alcune considerazioni linguistiche, semiotiche, che già da sole mi sembrano enormi.
Nel termine, leggo dal Garzanti che si tratta di un fenomeno d'interdipendenza economica a livello globale. Da Wikipedia apprendo che sembra essere nato tutto negli anni '70, nel senso poi accettato come "distruttivo", del termine.

Le nazioni colonialiste di tre o quattrocento anni fa (ma anche di più), non dipendevano già da alcuni beni, ottenuti come sfruttamento delle loro colonie?
Mi sembra che ci si soffermi solo su quello che la nostra memoria storica riesce a percepire, ovvero tornando indietro al massimo di una quarantina d'anni.
Come se l'Europa, avesse scoperto solo dal 1970 che caffè e tabacco provenivano da paesi poveri.

I due estremismi che vedo in guerra, sono invece ben più recenti.
Da un lato quello delle multinazionali, forma moderna ed accresciuta delle compagnie coloniali.
Dall'altro quello dei no-global, una forma riveduta e corretta di hippies armati.
Messa in questi termini è evidente che non ci sarà mai una vittoria definitiva contro lo sfruttamento dei paesi poveri, visto che chi rappresenta le loro difese nei paesi ricchi si presenta come disadattato, inviso al sistema e allo stato sociale imperante -- non ha nessuna importanza l'equità dello stato sociale, la sua giustizia o altro, sono fenomeni puramente collaterali.

Fra due estremismi, in guerra, continua sempre a vincere quello con le armi più forti, con gli amici più potenti -- penso ad esempio ai casi di guerra letterale, come fra israeliani e palestinesi.
Per il potente di turno, i no-qualcosa, gli anti-qualcosaltro possono anche essere un'ottima arma di propaganda.
E' così facile affermare che "loro usano la violenza".
Soggetti come Jose Bové sono ottime armi in mano ai detentori del potere economico, il perfetto esempio di "come sono cattivi i nostri nemici". Così un contadino idiota, diventa rappresentativo di una nazione che è comunque contraria al resto del mondo, per il solo fatto che esiste e che non è più una loro colonia. Scommetto che avrebbe incendiato i TIR italiani che portano vino italiano in Francia, ma stavolta TIRava di più McDonald.
E di cose contro le multinazionali come McD o la CocaCola se ne possono sicuramente dire tantissime. Casualmente Bové è partito dalle multinazionali americane, non dalle molte francesi, magari nel settore petrolifero.

Sono ignorante, lo ammetto, non ho "studiato la lezione" né dei contrari alla globalizzazione, né quella delle multinazionali.
Sicuramente le due sono ricche di quello che in inglese si chiama spin-doctoring, capovolgimenti di fatti in modo che appaiano tutti veritieri e assoluti.

Non avevo bisogno di leggermi la versione delle multinazionali, perché vedo da tutta la vita gli effetti che hanno localmente e globalmente: difficili da spacciare come solamente positivi -- non citerò d'esempio Bhopal, ma fate conto che abbia citato un'altro dei mille casi simili.

Che dire poi dei movimenti contrari all'economia globale, spesso infarciti di leggende metropolitane prima che di fatti. Incapaci di fare informazione, sempre più spesso si vantano di fare disinformazione o distruzione, come segno di protesta.

Note dal mondo
Ma se io volessi mangiare un frutto cubano, vestire con abiti di cotone indiano, bere caffè sudamericano, sedermi su una sedia di legno africano... divento un globalizzatore pericoloso e distruttivo?
In ogni caso?

L'interdipendenza del pianeta è a mio parere imprescindibile. Economicamente, ecologicamente, culturalmente.
Non esiste più il piccolo mondo antico dove cacao e caffè erano roba da ricchi, per cui neppure degni di economia globale.
La globalizzazione, per il significato della parola da vocabolario, trovo quindi che sia non solo inevitabile, ma da accettare come progresso. Fermi un momento però: questo non giustifica i modi con cui viene applicata oggi.
Quello che voglio dire è che la demonizzazione, la rappresentazione in forma di peccato mor(t)ale, sono completamente sbagliate nei metodi e nell'applicazione.
Ad un'aberrazione sociale, come ad un tumore, si applica la scienza, non la catechesi.

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