martedì, novembre 14, 2006

A che gioco giochiamo

Sono un appassionato di giochi da sempre, lo ero nell'infanzia e in forme diverse ho mantenuto l'interesse nel tempo.
Giocare può essere stimolo per la fantasia, l'immaginazione, e anche per l'intelligenza, quando il gioco ci sfida a trovare nuove soluzioni.
In fondo anche scrivere articoli su un weblog è un gioco: comporre frasi corrette, stimolare il proprio pensiero a connettere insieme fatti e opinioni diverse, esprimersi seguendo un ragionamento.

Anzitutto una premessa: parte del contenuto che segue era già scritta. Avevo iniziato la bozza di un articolo al 26 ottobre scorso, poi mi sembrava comunque incompleto, insoddisfacente, e l'avevo lasciato lì.
Visti gli ulteriori sviluppi sull'argomento videogiochi, nei giorni recenti, lo riprendo e riparto da questo.

Giocare d'intelligenza (bozza del 26/10/2006)
I giochi che più mi affascinarono, fin dalla giovane età, furono i giochi elettronici. Nascevano infatti negli anni '70 del secolo scorso, in un'epoca in cui cominciava a diffondersi in modo preponderante la tecnologia elettronica.
Ricordo ancora con una certa invidia qualche compagno di scuola, che già allora possedeva un videogioco tascabile come il Mattel Auto Race, che ormai è scomparso dalla memoria dei più.
Erano giochi semplici, ben lontani da un'odierna console portatile, come la Sony PSP.
Per non parlare poi dei primi piccoli calcolatori per il gioco degli scacchi, che trovavo affascinanti per la loro capacità "predittiva" del gioco.
Con l'evolversi della tecnologia si sono potute realizzare sempre nuove funzioni, è cambiata la complessità dei giochi così come la rappresentazione degli stessi (immagini, suoni) e l'interazione con il giocatore.

Eppure il gioco è da sempre nemico di molti, per motivi assai diversi.
E' sicuramente nemico degli stessi giocatori, quando diventa ossessione, e non vale solo per i giochi elettronici, ma anche per quelli convenzionali: basti pensare a chi si riduce in bancarotta con i giochi di carte o con le scommesse.
Probabilmente è stata questo tipo di pericolosità sociale a preoccupare capi religiosi o di governo, fino dagli albori del gioco. Come anche è stata questa dipendenza (con una certezza sugli incassi) a mantenere felici altri capi di governo (e religiosi).

Negli ultimi anni c'è poi un periodico interesse, da parte di certi settori dei mezzi di comunicazione, verso la presunta pericolosità dei videogiochi. Il format classico ricalca la linea "chi prende parte ad un gioco, dove si finge l'uccisione di un avversario, non può che avere pulsioni omicide, anche fuori dal gioco".
Negli Stati Uniti d'America sono state proposte nel tempo delle leggi sempre più restrittive, nei confronti della vendita di videogiochi ai minori. Per non parlare di paesi come l'Australia, dove un videogioco può essere bloccato all'importazione, anche per i maggiorenni -- non solo per i giochi violenti, ma anche quelli con espressioni di sessualità troppo esplicita.
Va da sé che la maggior parte di queste proibizioni è facilmente riconducibile a fanatismi, perché se da un lato è comprensibile la riduzione dell'esposizione dei minori alla violenza, dall'altro è eccessivo il proibizionismo che spesso viene proposto.
C'è sicuramente un controllo da adottare, prima di dare in mano ad un ragazzino alcuni tipi di giochi. Questo vale per un go-kart, o un razzo giocattolo, considerando la pericolosità fisica, ma deve ovviamente valere anche per un videogioco, quando è rilevante la pericolosità nel senso psicopedagogico.

Tutto questo vale per il politically correct, come amiamo dire dimostrando scarsa proprietà di linguaggio (perché non dire semplicemente educazione o correttezza?).
Ma non è solo il linguaggio a scarseggiare.
In compenso c'è abbondanza: violenza e comportamenti sessuali confusi sono all'ordine del giorno, sulle reti televisive e sulla carta stampata. Chi legge già qualche mio articolo sa bene che non sono affatto un moralista.
Il punto è sul finto perbenismo, che oggi vieta e tiene sotto controllo i videogame con immagini forti, e domani ci fa vedere nel telegiornale qualche guerra in corso nel mondo, e a seguire un programma dove l'attrazione principale del telespettatore è indirizzata verso qualche bella ragazza seminuda. Ci piace farsi beffa di noi stessi, sembra.

Tutta questa riflessione è nata da un articoletto che ho letto poco fa, una vera ode al ridicolo.
Il signor Daniele Semeraro, che non conosco assolutamente, ci racconta di una sua visione fantasiosa sul mondo dei videogiochi. C'è da dire che la reciprocità del Semeraro è di non conoscermi assolutamente, e altrettanto pare evidente della sua conoscenza sul mondo dei videogiochi.
E' altresì lecito osservare che potrei sbagliarmi: magari ha scritto sotto dettatura di editori o pubblicitari.
Nel mondo incantato del Semeraro, e in quello del signor Aldo Toscano, che mi si dice direttore del dipartimento Scienze Sociali all'università di Pisa, stanno sparendo i giochi che contengono violenza. Insomma, siamo tutti più buoni.
Già alcuni anni fa, dopo gli attentati terroristici del 2001 negli USA, qualcun altro aveva tentato di propagandare una storiella analoga. Fu raccontato che infatti nessuno più aveva voglia di giochi di guerra, dopo le migliaia di morti.
Sinceramente, dopo articoli del genere, mi chiedo sempre un paio di cose: quanto credono idioti i loro lettori e quanto a lungo?

L'accozzaglia di notizie in quell'articolo è poi contraddittoria. Viene citata una olimpiade dei videogiochi, come se fosse dimostrazione che il fenomeno è importante (quello della diffusione dei giochi privi di atti violenti). Solo che il Semeraro (autore anche dell'altro articolo che cita) non ricorda evidentemente che i giochi più quotati sono quelli in cui l'avversario viene ucciso nell'azione di gioco.
A chiunque piaccia giocare con quel tipo giochi d'azione, ma anche quelli strategia in tempo reale, sa che sono i titoli trainanti del settore -- e fra questi giocatori sono incluso anch'io.
Un gioco come The Sims è divenuto sì un simbolo, ma rimane una singolarità.

I videogiochi di guerra, indubbiamente, non sono la guerra.
La vera rappresentazione della guerriglia, dell'odio, della violenza, per chi la vuole a portata di mano, è in ogni città. Nelle periferie degradate, sì, ma soprattutto nelle settimanali partite di gioco del calcio.
Quanto alla scarsità d'intelligenza è dilagante: se la tifoseria calcistica è emblema di quella al maschile, le frotte di ragazze emule ed invidiose delle soubrette televisive ne sono la controparte femminile.
Resto in trepida attesa del prossimo articolo del Semeraro, o di altri suoi colleghi, in cui immagino mi verranno a spiegare che la violenza, nei paesi poveri del mondo, sia in diretta relazione con i videogame.

[...]

Improvvisa violenza (scritto oggi)
Rileggendo l'articolo di venti giorni fa c'è di che sorridere: viene da chiedersi se nessuno mai si metterebbe a correlarli, come faccio io qui.
Eh sì, perché venti giorni fa i giornalisti e gli esperti di scienze sociali ci raccontavano che i videogiochi stavano diventando un'apoteosi disneyana, mentre oggi si scomodano nuovamente giornalisti e altri esperti per ammonire che i videogiochi stan diventando una delle cause della violenza giovanile.

Con un minimo di spirito critico è invece evidente la mediocrità giornalistica.
E' anche chiaro che se un argomento del genere (d'importanza minore rispetto ad altri fatti più gravi della società) diventa una beffa del lettore, a maggior ragione possono esserlo anche altri fenomeni -- di politica, psicologia, ricerca, e così via.
Vi sentite canzonati dai giornalisti ed esperti? Dovreste, perlomeno.

La notizia di questi giorni, sulla violenza nei videogiochi, gira intorno ad un titolo per Sony Playstation, già pubblicato in Giappone col nome Rule of Rose, in uscita a giorni anche in Europa.
Prendo con estrema cautela le recensioni del gioco, che fatte da giornalisti, com'è normale, potrebbero finire per essere tendenziose.
Su un articolo di Panorama, replicato anche sul sito di Mytech, ne leggo alcune delle caratteristiche salienti.
Il titolo si presenta come un survival horror, genere piuttosto definito nel panorama videoludico. Solitamente impegna il giocatore nell'impersonare o nel controllare un personaggio, in un'ambientazione da film dell'orrore, dove la finalità è risolvere enigmi e fuggire dai pericoli.
Fra i titoli survival horror è è classicamente molto comune la violenza a profusione, visto che i pericoli per l'alter ego del giocatore sono spesso creature consimili a quelle dei film d'orrore, quali esseri demoniaci, morti viventi, fino ai classici da thriller, come certi assassini seriali.

La differenza, in questo caso, la fa l'insieme di aberrazioni da parte dei personaggi violenti.
Non solo si tratta di comportamenti violenti, ma anche deviati e perversi, ad opera di personaggi molto giovani, tipicamente adolescenti.
La ragazzina, alter ego del giocatore, subisce quindi violenze fisiche e psicologiche, in un ambiente profondamente disturbato, dove quello che preoccupa chi ha visionato il gioco è la giovane età di tutti i soggetti nel cast.
Mi appare evidente che ci sia una profonda preoccupazione che certi comportamenti vengano presi ad esempio, se chi gioca s'identifica nell'ambiente e nei personaggi. Non è quindi un gioco raccomandabile a degli adolescenti, e perché questo avvenga serve sicuramente qualche impedimento della vendita ai molto giovani, così come dovrebbero essere sensibilizzati i genitori.
Vietarlo del tutto?

Il signor Walter Veltroni ha commentato che, a suo parere, "È assolutamente impensabile che un videogioco dai contenuti violenti venga commercializzato e distribuito nel nostro Paese".
Il ridicolo di cui lo copre una frase del genere dovrebbe come minimo farlo desistere dagli incarichi istituzionali che ricopre, ma non credo che avverrà.
Anzitutto dovrebbe spiegarci cos'ha, questo nostro Paese, per ritenersi immune ai contenuti violenti. Come osservava anche un lettore di Punto Informatico, con quale ipocrisia si alza il dito accusatorio verso i videogiochi, mentre la stessa televisione di Stato adotta la violenza per rialzare gli ascolti?
Il prossimo passo sarà il blocco della totalità dei film d'azione provenienti dagli Stati Uniti d'America? Perché è evidente, in nessuno di questi manca la violenza, diretta, gratuita, senza il velo della grafica di un videogioco.
Ho come l'impressione che quel Paese citato dal Veltroni sia invero piuttosto ristretto, al massimo allargato al suo condominio: perché di quell'altro Paese, quello dove vivo anch'io, mi sembra non abbia alcuna percezione.

Come nella fiera dell'ovvio, il Veltroni prosegue: "Credo sia perversa la mente di coloro che hanno ideato e realizzato un videogame del genere. I nostri giovani già vivono tempi difficili, con la realtà della violenza presente quotidianamente su tutti i media. Non si meritano certi prodotti ed è giusto lanciare un allarme e mettere in campo immediate azioni concrete in difesa del diritto a crescere senza condizionamenti tesi ad esaltare la ferocia, l'odio e la morte".
Quali azioni concrete vi aspettate di vedere?
La messa al bando dei reality televisivi, dei film americani, oppure la messa all'indice dei videogiochi?
Non credo che serva un calcolo complicato, per sapere cosa rende di più, come introiti.

La cultura giapponese, fonte di questa impasse, è sicuramente molto distante dalla nostra. Per non parlare del livello di psicosi da cui è permeata, visti gli eccessi di cui spesso si alimenta.
Eppure non è esecrabile tout-court, va compresa come si fa con molti fenomeni distanti.
Ma siamo sicuri che le perversioni siano solo lì?
Non è perverso anche il meccanismo della nostra censura?
Ripenso ad esempio al violentissimo romanzo di Ryu Murakami, Tokyo Decadence, uscito anche in versione cinematografica. La trasposizione nel film è anche meno violenta del racconto, eppure la pellicola uscita in Italia era censurata, tagliata, seppure vietata ad un pubblico minore di 18 anni -- e fra l'altro non erano scene violente, ma di atti sessuali che nei film puramente pornografici non vengono certo omesse.
Perché ci viene permesso di conoscere solo una parte delle cose?
Perché mai, da adulti, consenzienti, ci viene permesso di conoscere solo una parte della violenza?

A che gioco stanno giocando gli amministratori del Paese?
Perché se ce n'è uno violento, da vietare a tutti, è quello.

Nessun commento: